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Benvenuti in un nuovo episodio di Arabeschi

Dopo aver definito il concetto di Sharī’a, nell’articolo di oggi, parleremo del fiqh فقه, ovvero il diritto positivo.

fisqLe disposizioni della Sharī’a si trovano riunite nel fiqh, ovvero il diritto positivo che comprende sia le norme che riguardano i rituali relativi alle pratiche religiose, sia quelle che governano la vita sociale dei paesi musulmani. La codificazione del fiqh, ha avuto luogo intorno al X secolo quando, come abbiamo visto precedentemente, gli esperti hanno deciso di chiudere la porta dell’ijtihād, ovvero dello studio personale della legge, processo che ha portato ad una contrazione interna alla dottrina, con cui l’Islam si confronta ancora oggi.

Il fiqh prevede sia atti proibiti (حرام harām) che leciti (حلال halāl), ma ciascun atto può essere anche doveroso (فرض fard) nel caso in cui la sua esecuzione venga premiata e la mancata esecuzione punita; raccomandabile (مستحب mustahabb) nel caso in cui la sua esecuzione sia premiata ma la sua mancata esecuzione non sia punita; permesso (مباح mubah) nel caso non preveda né premi né punizioni per la sua esecuzione o meno; ed infine riprovevole (مكروه makrūh) nel caso in cui sia considerato sconveniente da un punto di vista religioso, ma non per questo punibile.

Considerata la lontana epoca nella quale il diritto positivo è stato codificato, non è sempre possibile esercitare una imitazione passiva (تقليد taqlīd), a causa del sempre crescente aumento della complessità sociale e di un mancato aggiornamento con essa. Per superare questo problema, è diventata usanza comune chiedere un parere giuridico (فتوى fatwa) ad un giureconsulto (فقيه faqīh). Lo strumento della fatwa non innova ma permette di applicare a casi particolari, prescrizioni dei trattati di fiqh, vincolando, però, solo coloro che seguano la scuola del giureconsulto che emette quella specifica fatwa.

L’esegesi dell’Islam non si fonda, infatti, solo sulla teologia ma soprattutto sul fiqh, ovvero la giurisprudenza islamica. La giuridicizzazione della religione ha imprigionato il credo in una dimensione molto istituzionalizzata, grazie anche al lavoro di interpretazione prodotto nelle scuole giuridiche, specialmente le 4 canoniche del mondo sunnita, ovvero: la scuola Hanafita , tutt’oggi la più diffusa, prende il nome da suo fondatore Abu Hanifa al-Numan, che predilige un’interpretazione della giurisprudenza che derivi dal Corano, lasciando in secondo piano le altre fonti, essa privilegia il ragionamento razionale, deduttivo e analogico; la scola Malikita, fondata da Malik ibn Anas, enfatizza l’importanza della fedeltà ai modelli religiosi, giuridici e sociali sui quali si basa il consenso della comunità, rispetto alle interpretazioni razionali dei singoli dotti; la scuola Shafita, fondata da Muhammad ibn Idris ash-Shafi, si presenta come una sintesi delle prime due: nell’interpretazione della Legge stabilisce un’esatta gerarchia delle fonti, anche se in caso di controversia, considera che sia la Sunna a prevalere e questo è il motivo per cui questa fonte abbia assunto un ruolo normativo così importante; infine, la scuola Hanbalita, fondata da Ahmad ibn Hanbal, è contraria all’uso della ragione umana per l’interpretazione del Corano e della Sunna. Per questo motivo questa scuola rifiuta l’utilizzo dello strumento della ijmā’, ovvero del consenso della comunità dei credenti. Le divergenze tra le varie scuole non riguardano tanto i principi generalmente condivisi, ma l’applicazione di determinate regole a casi specifici e la diversa fruizione delle fonti.

Ciascun credente può aderire ad una scuola e teoricamente uscirne, grazie all’insegnamento del Profeta, secondo cui la divergenza di opinioni è un bene per la comunità islamica, ma in realtà questo processo di cambiamento avviene molto raramente a causa del forte radicamento di ciascuna scuola in specifiche aree geografiche del mondo islamico.