Quando il concetto di franchise prende il controllo del supereroe, la necessità di avere personaggi le cui certezze vacillano è necessario per ridarne valore e concretezza.
Nel 1963 Umberto Eco pubblicava il saggio Apocalittici e integrati, uno studio di metà secolo sulla cultura di massa e i mezzi di comunicazione. All’interno del testo un intero passaggio, intitolato “Il mito di Superman”, è dedicato alla figura dei supereroi — alla loro funzione e agli schemi sotto cui queste invenzioni narrative si muovono. Ad oggi il manuale di Eco rimane una delle più acute e dettagliate analisi sugli strumenti comunicativi e narrativi che richiamano quotidianamente la nostra attenzione.
Parlando di Superman, il supereroe per eccellenza, Umberto Eco si esprime così:
“In una società particolarmente livellata, in cui le turbe psicologiche, le frustrazioni, i complessi di inferiorità sono all’ordine del giorno; in una società industriale dove l’uomo diventa numero nell’ambito di una organizzazione che decide per lui […] l’eroe positivo deve incarnare oltre ogni limite pensabile le esigenze di potenza che il cittadino comune nutre e non si può soddisfare.”
Umberto Eco fu tra i primi studiosi ad analizzare i modelli escapisti dei fumetti e dei loro personaggi, mettendo in luce i legami tra società e supereroi. Contemporaneamente, in America, veniva lanciata dalla Marvel Comics una nuova serie incentrata sulle avventure di giovani ragazzi con superpoteri innati: gli X-Men.
La serie fu – per la Marvel e per l’intera industria fumettistica – un passaggio essenziale per l’evoluzione dell’immaginario superumano in chiave socio-politica: non solo il fumetto descriveva i supereroi come figure emarginate all’interno della società, ma dava ai personaggi poteri posseduti sin dalla nascita; escludendone la loro casualità o esteriorità.
Da una parte la serie degli X-Men espandeva l’analisi di Eco alle paure verso il diverso nella società moderna, dall’altra aggiungeva il concetto di evoluzione dell’uomo verso una forma superumana, possibile però solo attraverso un processo di accettazione — nulla di più coerente con l’espandersi della controcultura del Sessantotto.
Col passare degli anni, disegnatori e sceneggiatori sono diventati più consapevoli del carico di significati che la figura del supereroe poteva portare con sé. Il supereroe, in chiave metaforica, aveva sempre rappresentato ugualmente la forza e la debolezza dell’essere umano — con l’uscita degli X-Men questo messaggio era diventato accessibile anche ai lettori, spingendo le dinamiche narrative e semiotiche ad assumere forme più decise ed esplicite.
Il nuovo modello fumettistico delle graphic novels permette ad artisti come Frank Miller e Alan Moore di creare Il Ritorno del Cavaliere Oscuro e Watchmen, in cui non solo la figura dell’uomo prevale su quella del supereroe, ma in cui per la prima volta il supereroe perde la sua condizione di mito senza tempo — ovvero, invecchia.
A differenza di un prototipo di supereroe come Superman, immutabile e immutato attraverso tutte le sue prime avventure, Miller e Moore immaginano per la prima volta la figura di eroe invecchiato, privo dunque di quella sua caratteristica super. Il concetto è talmente radicale da stravolgere la percezione del medium fumetto, spezzando definitivamente le catene che lo legavano a divertissement per ragazzi.
Nell’ultimo anno i due adattamenti Logan e Legion, entrambi appartenenti all’universo X-Men, hanno dimostrato come sia necessario per il moderno entertainment sviluppare una nuova presa di coscienza nei confronti dell’universo dei supereroi. Il Marvel Cinematic Universe ha assunto ormai le sembianze di franchise multimediale, portando nella vita di ognuno le ambientazioni dei fumetti Marvel e i corrispettivi supereroi — si potrebbe in un certo senso parlare di invasione dei supereroi, dato il massiccio approccio adottato dal franchise. In questo mare magnum di mantelli e doppie identità, il supereroe rischia però di non essere più portatore di quei significati evidenziati da Umberto Eco, Frank Miller e Alan Moore.
In Logan e Legion viene presentato al pubblico Wolverine vecchio, stanco e alcolizzato, Charles Xavier in balia di una malattia neurodegenerativa e David Haller costretto a bilanciare i suoi poteri con disturbi mentali e della personalità. Questi tre personaggi ci pongono finalmente di fronte all’incertezza del supereroe, riportando la metafora che ha sempre caratterizzato i personaggi dei fumetti ad una condizione più attuale. Attraverso il loro sviluppo l’universo dei supereroi riscopre la necessità di modellare i propri protagonisti sulle incertezze della nostra epoca, rispecchiando così la perdita di valori in atto al suo interno.
L’estremo superomismo rappresentato all’interno dei franchise della Marvel e della DC rischia – se non correttamente bilanciata da produzioni come Logan e Legion – di portare la funzione metaforica dei supereroi a sterile involucro, fatto esclusivamente di esplosioni e machismo. Affrontare la malattia del supereroe è utile, non solo per ridarne valore, ma soprattutto per porci davanti alla nostra condizione umana e, in quanto tale, fallibile.