Siamo stati al Giambellino, dove la riqualificazione rischia di colpire le classi sociali piú indifese.
Molto è passato dai tempi del mito Cerutti Gino — ma lo chiamavano Drago, gli amici del Bar Giambellino al civico 50 — dal biliardo, dal barbera, dai tavolini sulla via dei tram fino a tarda notte, i tempi di quel bar che portava il nome di una via ma anche il nome di un quartiere.
È il Giambellino, alla periferia sud-ovest di Milano, il quartiere della famiglia Morlacchi, di Curcio e Cagol, delle prime — per molti, le ultime — Brigate Rosse. È il quadrilatero di fine anni Quaranta del Lorenteggio, quella trama di case popolari che fila tra la via omonima e via Odazio, via Inganni e Piazza Tirana. In via Apuli ci stava Vallanzasca. C’era poi Gaber in Largo Gelsomini, e c’era Battisti, in via dei Tulipani. Di là, tra gli altri, sarebbero passati anche Abatantuono, Enrico Mentana e persino, a un certo punto, Berlusconi.
La piazza davanti alla biblioteca di via Odazio è stata per molto tempo uno degli snodi nevralgici dello spaccio meneghino, la piazza più grande dell’eroina a Milano. Solo negli anni Novanta l’ondata ha iniziato a calare: “Alcuni morivano di overdose nei bagni della biblioteca stessa, o nei pressi della fontana.” A parlare è N., che al Giambellino vive e lavora da decenni, ma preferisce rimanere anonimo. “Capitava anche che entrassero chiedendo di chiamare l’ambulanza — e veloce, veloce. Intorno alla fontana c’è un anfiteatro di mattonelle: erano riusciti a sfilarne alcune per nasconderci dietro l’eroina. Spesso passava la polizia — divenne un appuntamento a orari fissi — gli agenti si mettevano qua davanti, le spalle alla biblioteca e gli occhi alla piazza, chiedevano chi fossero quei drogati là. Non sempre erano cortesi. A volte li prendevano e li facevano mettere tutti-in-fila lungo la parete dei caseggiati che corrono lungo via Odazio e costeggiano la biblioteca. Erano tantissimi. Tutto questo era normale.” Ma i tempi erano destinati a cambiare, e in fretta.
Il quartiere dai molti volti alle porte di Milano — completamente stravolto dall’edilizia degli anni Sessanta, che aveva portato la soluzione delle case minime nella nuova area industriale e operaia — divenuto famoso in tutta Italia grazie a Gaber e da sempre considerato uno dei quartieri più malfamati della città, sta ora vivendo, come diverse altre zone periferiche di Milano, un nuovo periodo di trasformazione. Due fermate della Linea 4 della metropolitana sono già in costruzione: Segneri e Lorenteggio-San Cristoforo FS. Inoltre il Comune, per la relativa vicinanza del quartiere al centro, ha dato il via ad altre opere di riqualifica legate principalmente alla rimessa a norma del fronte stradale e all’illuminazione della viabilità. Questione ben più spinosa resta quella legata alla ristrutturazione delle case popolari Aler di via Lorenteggio, in particolare del civico 181, per il quale si prospetta addirittura la demolizione: ad oggi, le palazzine del 181 sono tutte abitate, sia da inquilini in regola che da abusivi.
“Il primo flusso migratorio è giunto dal sud Italia nel secondo dopoguerra. Poi è stata la volta del nord Africa, con egiziani, marocchini e maghrebini, poi dei Balcani, da cui sono arrivati moltissimi albanesi. Intanto, coloro che erano giunti dal sud Italia negli anni Cinquanta — qualcuno finito a orbitare intorno alla malavita milanese — arricchitisi, si stavano spostando in altre zone della città, lasciando un vuoto che sarebbe stato presto riempito” racconta uno degli abitanti storici del quartiere.
È così che l’ultima ondata di immigrazione ha trovato spazio nel quartiere, in tutte quelle abitazioni lasciate vuote o sfitte, sia di proprietà di Aler — quelle case cosiddette minime, immobili di massimo 30/40 metri quadrati — che di privati. “Un tempo il Lorenteggio era un quartiere estremamente operaio, disseminato di fabbriche, anche se in misura non paragonabile a quello che è stata la zona di Sesto San Giovanni. Oggi, mentre va avanti il millantato progetto di riqualificazione del quartiere, ci sono stabili che devono essere abbattuti, in cui mancano elettricità e acqua corrente, e in cui continuano ad abitare famiglie e gruppi numerosi, senza alcun controllo igienico-sanitario.”
Ma questa, al Giambellino, non è affatto una novità.
Per la gestione delle famiglie del civico 181 diverse associazioni di zona, tra cui Casetta verde e Le Radici e le Ali, si sono unite sotto il progetto VALE (Vivere e Abitare Lorenteggio ERP), portando a termine una mappatura del quartiere, una sorta di censimento di quelle che sono le aree critiche, delle persone che le abitano, degli occupanti, degli assegnatari, dei morosi. I dati raccolti sono serviti per affinare il progetto del Masterplan, un documento di indirizzo strategico che sviluppa un’ipotesi complessiva sulla programmazione di un territorio, individuando i soggetti interessati, le possibili fonti di finanziamento, gli strumenti e le azioni necessari alla sua realizzazione. Interessante è la modalità con cui è avvenuta la mappatura, dato che il progetto VALE si è occupato di cercare e classificare solamente chi risiede al Giambellino. Ma c’è una legge — il famoso articolo 5, il “Piano Casa” di Renzi — che impedisce a chi è occupante di prendere la residenza e di avere l’accesso ai pubblici servizi in relazione. Ciò significa che, nel momento in cui VALE ha mappato la zona, non ha tenuto conto della reale popolazione del 181.
“Il punto è che le criticità riscontrate nel quartiere — sono così definite le persone da spostare per poter abbattere le case — sono in realtà molte di più, dato che ci sono tutti i “fantasmi”, ovvero coloro che non hanno residenza, che non compaiono e quindi non vengono considerati.” Il dato di abusivismo è sempre molto alto nel quartiere. Dopo gli sgomberi, molte case vengono rioccupate a distanza di solo poche ore.
A fare un resoconto della situazione è il Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio che, oltre a gestire una mensa comune adatta anche ai più bisognosi, da anni si muove per una reale “riqualificazione dal basso”, proponendo attività e soluzioni alternative e inclusive, e monitorando allo stesso tempo i movimenti delle istituzioni nel quartiere. Il Giambellino-Lorenteggio, con le sue stratificazioni sociali, si prepara oggi a diventare esempio per tutta Milano delle grandi contraddizioni generate dai processi di gentrificazione. Si parla qui di un genere di riqualificazione urbana e sociale che non tiene effettivamente conto delle reali necessità di una zona periferica, strada che sono destinate a percorrere diverse altre aree metropolitane ai confini della cinta milanese. Infatti, sia con le nuove fermate della metropolitana, sia con le nuove abitazioni, adatte a un’utenza a reddito decisamente più alto, gli attuali abitanti del quartiere saranno costretti ad allontanarsi, a spostarsi verso l’esterno, a defluire ancor più verso la nuova periferia.
Un fenomeno che ha un nome ben preciso: gentrificazione.
Basta passeggiare per il quartiere per rendersi conto della forte sovrapposizione sociale, dagli immigrati “di prima generazione” — quella venuta dal mezzogiorno — ai figli della più recente ondata, dagli abitanti nativi (per lo più anziani) ai nuovi giovani delle più diverse etnie. Con il nuovo Masterplan e il G124 di Renzo Piano per il quartiere, questa frammentazione verrà semplicemente nascosta sotto il tappeto, e poi spazzata via, secondo un raffinato progetto di ingegneria sociale, mirato ad allontanare gli indesiderati e ad attrarre una nuova classe più ricca, in grado d’investire nella “rinascita” del quartiere.
L’idea di fondo è quella di avvicinare Milano ai modelli di altre città europee come Parigi e Berlino; creare insomma una nuova “città metropolitana” fatta di municipalità e piccole autonomie. Ma a quanto pare Milano ha intenzione di condividere con le sorelle europee anche le contraddizioni: con questa nuova politica abitativa si allargherà solamente la cintura del centro urbano, le attuali periferie diventeranno nuovi poli identici ai precedenti, e i quartieri popolari verranno spinti e schiacciati ancor più verso la provincia, sempre più mal collegati dai trasporti pubblici, in modo da tenere lontano dalla città il degrado e le classi sociali più svantaggiate.
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