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in copertina, il murales dell’artista Gomez de Teran, realizzato nell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria della pietà a Roma, ora Museo laboratorio della mente. Foto di Sebastiano Santoro

Il sesso nel percorso di cura del cancro è un problema che riguarda il 6% delle donne italiane. La limitata conoscenza di come la malattia interagisce con la sfera sessuale, provoca convinzioni irrazionali e rivela quanto il sesso e l’intimità siano poco dibattuti nel percorso di guarigione. Seconda puntata di una serie di articoli dedicati al tabù del sesso nella società.

“Oggi molti credono che il cancro sia una malattia della passione insufficiente, e colpisca le persone sessualmente represse, inibite, prive di spontaneità.” Queste parole sono di Susan Sontag, in Malattia come metafora, un libro in cui la scrittrice statunitense ha cercato di decifrare i significati culturali che abbiamo attribuito ad alcune malattie, come il cancro e la tubercolosi. Sontag sostiene che concezioni così fantasiose sulle malattie sono sempre il segno di quanto poco si conosca dei suoi aspetti fisici.

Dalla sua pubblicazione sono passati più di 30 anni. La ricerca scientifica sul cancro ha fatto progressi nel campo della prevenzione, della diagnosi e dell’efficacia delle terapie. I tumori sono la seconda causa di morte in Italia, ma l’ultimo rapporto dell’Associazione Italiana Oncologia Medica (AIOM) conferma che, ad eccezione di alcuni tipi di neoplasie, l’andamento della mortalità per la maggior parte dei tumori è in diminuzione, e nel 2020 sono circa 3,6 milioni le persone sopravvissute in Italia dopo aver ricevuto una diagnosi. Si tratta del 6% della popolazione, con un aumento del 36% rispetto alle stime prodotte nel 2010.

Insomma, quella che Sontag definiva “male incurabile” con il tempo è diventata una malattia da cui si può guarire, o con cui si può sopravvivere a lungo. Ma in che modo e a quali condizioni? 

Il sesso dopo il cancro è un problema che riguarda il 6% delle donne italiane,”  afferma Amalia Vetromile, responsabile del progetto Sex and Cancer, che ha l’obiettivo di sensibilizzare medici e pazienti circa i problemi sessuali delle pazienti oncologiche. “Le donne provano spesso vergogna e imbarazzo a confidarlo al proprio medico, al partner e persino alle amiche più intime,” spiega Vetromile, “sono convinte che non può essere fatto nulla dal punto di vista clinico, e spesso molti medici non sanno affrontare questo silenzio.”

Il cancro e i suoi trattamenti causano una serie di effetti clinici collaterali, e alcuni possono riguardare la sfera sessuale. Nelle donne uno degli effetti più ricorrenti è la menopausa precoce. I motivi sono legati all’effetto tossico dei trattamenti oncologici sulla funzione ovarica. I sintomi che la caratterizzano sono gli stessi della menopausa naturale (vampate di calore, sudorazione, disturbi del sonno, affaticamento, irritabilità, sbalzi d’umore, secchezza vaginale e diminuzione della libido), però l’impatto è maggiore perché insorgono in maniera eccezionalmente rapida.

“Le prime sensazioni orribili sono state le vampate di calore” afferma Jessica Resteghini, un’attrice di 34 anni a cui quattro anni fa hanno diagnosticato un carcinoma alla mammella. “Non ero pronta, non ero pronta a niente di tutto questo. L’avevo letto, ma non c’era nessuno che mi avesse spiegato esattamente dal punto di vista corporeo e psicologico cosa sarebbe successo. È come se fossi caduta dal pero”. 

La reazione di Jessica non sorprende: è simile a quella di molte altre che come lei sono state sottoposte a trattamenti oncologici che hanno avuto ripercussioni sull’equilibrio ormonale. “Normalmente il calo ormonale della menopausa avviene lentamente, c’è la possibilità che il corpo si adatti gradualmente al cambiamento. Ma nella menopausa precoce tutto avviene in maniera più accelerata” commenta la ginecologa e ricercatrice in ginecologia oncologica Maddalena Mallozzi. 

Per le pazienti giovani è ancora più difficile accettare questi effetti, in quanto sentono compromessa la propria capacità riproduttiva: una caratteristica importante in questa fase di vita. Tutto ciò è da tenere maggiormente in conto, se si considera che i dati evidenziano che negli ultimi anni l’incidenza dei tumori giovanili è in aumento.

Il murales dell’artista Gomez de Teran, realizzato nell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria della pietà a Roma, ora Museo laboratorio della mente

Anche negli uomini l’accettazione dei cambiamenti causati dalla malattia può avere conseguenze difficili. Soprattutto quando essa tocca determinate parti del corpo. “I tumori che colpiscono l’apparato genitourinario, insieme al tumore al colon e al retto, possono avere degli impatti sulla vita sessuale maschile, sia intesa in senso stretto che come funzione riproduttiva” spiega l’urologo Nicola Nicolai, responsabile del dipartimento di chirurgia del testicolo all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, e uno dei massimi esperti europei sui tumori germinali. 

“I trattamenti oncologici possono avere impatti sulla sessualità maschile, con modalità diverse l’uno dall’altro” continua Nicolai. Il trattamento chirurgico, soprattutto se interessa la pelvi, ovvero la zona del bacino, può danneggiare le fasce vascolo nervose adibite a causare e mantenere l’erezione. La chemioterapia, invece, oltre a provocare un indebolimento generale dell’organismo e a ridurre la libido, dopo un numero elevato di cicli può dare luogo a problemi di fertilità. Anche la radioterapia può avere un effetto negativo, in particolare con il presentarsi di problemi di erezione. In questo caso molto dipende dalla dose totale di radiazioni e da quanto è ampia la sezione di bacino trattata.

Come si legge dal libretto divulgativo pubblicato dall’Associazione Italiana Malati di Cancro (AIMAC), è normale che uomini e donne che si sottopongono a trattamenti oncologici perdano interesse per l’attività sessuale. Nella fase immediatamente successiva alla diagnosi, si tende a dare priorità alla guarigione. Durante i mesi della terapia, poi, il cancro può influenzare, o addirittura compromettere, gli organi sessuali, il desiderio sessuale, il benessere e l’immagine corporea delle persone. E tutto ciò – nel caso in cui il paziente avesse un partner o una partner – può avere ricadute anche sulla coppia.

Gli effetti sulla sessualità possono variare da persona a persona. Sono numerosi i fattori che giocano un ruolo rilevante. Alcuni di questi sono la fase di vita in cui si trova il paziente al momento della diagnosi, il tipo di organo colpito, i trattamenti a cui è sottoposto, il significato e il valore che ciascuno di loro dava alla vita sessuale prima della malattia e, nel caso di una coppia, la qualità della relazione.

Anche il contesto culturale può giocare un ruolo determinante. Se si mettono a confronto i dati maschili con quelli femminili si vede che gli uomini scappano di più davanti alla malattia della propria partner. Come riporta la Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, uno studio americano pubblicato nel 2009 sulla rivista Cancer ha analizzato la storia di 515 coppie che erano sposate al momento della diagnosi di tumore di uno dei due. I risultati indicano che nei cinque anni successivi la percentuale di separazioni o divorzi era pressoché analoga a quella delle coppie non colpite dalla malattia, ma con una particolarità: quando avveniva una separazione, in 9 casi su 10 la persona malata era la donna. Anche il rischio di divorzio risultava 6 volte più alto se ad ammalarsi era la partner donna.

Come mai? Intervistato dalla Fondazione AIRC, il presidente della Società italiana di psiconcologia Paolo Gritti ha affermato che “la spiegazione più probabile è che vi sia una diversa attitudine fra uomo e donna a trasformarsi da partner a caregiver, cioè la figura che assume l’impegno di sostenere emotivamente il malato e di aiutarlo dal punto di vista pratico”. Dunque nei Paesi in cui gli uomini non hanno l’abitudine di farsi carico della cura della casa e della famiglia, ruolo che storicamente è stato attribuito alle donne, il cancro può mandare in crisi la relazione.

Questa conclusione sembra rafforzata da uno studio analogo riprodotto nel 2017 in Finlandia, uno dei paesi con l’indice mondiale più basso di divario di genere. In questo caso i risultati sono quindi molto diversi: il tasso di divorzio non risulta più alto nelle coppie in cui è la donna ad ammalarsi, ma è pressoché uguale.

Avere una vita sessuale sana dopo una diagnosi di cancro, quindi, non è semplice. Ma il sesso e l’intimità sono importanti. Per l’American Cancer Society, un’organizzazione sanitaria che ha dedicato decenni di ricerche sul tema, avere una vita sessuale sana aiuta i malati ad affrontare il sentimento di angoscia percepito durante la malattia.

In Italia il paziente oncologico non è sempre informato su cosa va incontro. Secondo un sondaggio pubblicato nel 2011 sul European Journal of Cancer Care e realizzato su un campione di 761 pazienti oncologici italiani, il 78% degli uomini e l’80,2% delle donne intervistate hanno discusso “poco e niente” con il proprio medico degli effetti della terapia sulla loro vita sessuale. “E ciò, nonostante tutte le indagini pubblicate dal 2003 a oggi dimostrano che molti pazienti vogliono una comunicazione franca su questo tema” afferma la psiconcologa Anna Costantini, Direttrice dell’unità di Psiconcologia dell’Azienda Ospedaliera e Universitaria Sant’Andrea di Roma, una delle coautrici dell’indagine.

Nella comunicazione tra medico e paziente, riguardo alla sessualità, si possono osservare delle vere e proprie barriere. Ne ha parlato la psiconcologa Costantini, che ha tenuto un intervento sul tema a un convegno organizzato nel dicembre 2020 da Sex and Cancer, e menziona alcune cause possibili.

La prima riguarda la qualità della relazione con l’oncologo. Un paziente che non si sente rispettato perché ha un oncologo frettoloso, che lo considera solo come un malato a cui deve somministrare un farmaco, non come una persona a 360 gradi, potrebbe rendere più difficile esprimere le reali esigenze in merito alla propria vita sessuale.

“Può anche succedere,” aggiunge Costantini, “che quando il paziente non introduce spontaneamente l’argomento, il medico pensi che egli non ne sia interessato; o che, entrando nella discussione di argomenti sessuali, l’oncologo abbia paura di aprire un vaso di pandora che non potrà gestire per mancanza di tempo e competenze. O ancora che abbia paura di invadere la privacy del paziente, per una forma di pudore personale a parlare di questi argomenti. Oppure che i pazienti stessi si sentano travolti da informazioni dettagliate che hanno difficoltà a digerire.”

Ulteriori barriere possono provenire anche dal paziente stesso, e dalle sue convinzioni. “Ad esempio ci sono molti pazienti che non hanno conoscenza dell’anatomia dei propri organi sessuali – afferma la psiconcologa Costantini – Oppure possono avere delle convinzioni irrazionali sulla malattia. Per esempio pensare che il cancro potrebbe essere contagioso attraverso i rapporti sessuali, o che i rapporti sessuali possano peggiorare i sintomi. Mi è capitata una paziente che ha avuto un tumore cerebrale che era convinta che avere l’orgasmo quando si ha un glioblastoma potesse innescare crisi epilettiche.

Certo, tra medico e paziente quello con responsabilità maggiori, e che in teoria dovrebbe essere preparato ad affrontare l’argomento, è ovviamente il medico, sostiene Costantini. Ma può accadere che la barriera sia le stesse credenze personali del medico. “Ricordo un professore ordinario di radioterapia che una volta mi disse, commentando il problema di impotenza di un paziente sessantenne con tumore alla prostata, che l’impotenza non gli sembrava un argomento importante a quell’età. Insomma, come a dire che a 60 anni la sessualità non deve avere più importanza per una persona”.

“Uno degli aspetti etici primari della professione medica è il rispetto della persona” afferma Ciro Gallo, docente ordinario di statistica medica all’Università Vanvitelli di Napoli. Da poco in pensione, il professor Gallo ha iniziato la sua carriera lavorando in consultorio, dopodiché è passato all’ambito della ricerca universitaria, a cui ha dedicato quasi quaranta anni della sua vita. “Ma nel mio percorso accademico non ho mai dimenticato di essere stato in principio un medico. Io credo che nel momento in cui uno fa il medico, lo rimane per tutta la vita”. 

Ed essere medico per il professor Gallo significa non dimenticare che di fronte si ha una persona con dei problemi, una cultura e delle caratteristiche specifiche, le quali a volte possono essere fastidiose, ma il termine ultimo di ogni percorso terapeutico è sempre e comunque il paziente.

“Anche nella ricerca”, spiega il professore Gallo, “si fa molto ricorso a una serie di effetti collaterali rilevati dal medico e di natura oggettiva, i quali se, da un lato, sono certamente molto importanti, dall’altro, possono nascondere le esigenze dei diretti interessati. Volendo fare un esempio, un effetto collaterale molto rilevante della chemioterapia è la neutropenia, cioè la riduzione o addirittura l’assenza di globuli bianchi. Una situazione che può essere molto pericolosa perché in un soggetto senza globuli bianchi aumenta il rischio di malattie infettive. Questo effetto collaterale spaventa molto i medici, ma poco l’ammalato, il quale se non viene contagiato non se ne accorge. E così, a causa di ragioni estetiche e sociali, per il malato potrebbe pesare molto di più della neutropenia un piccolo eczema, un problema lieve della pelle, che il medico invece considererebbe una sciocchezza.”

Il punto è che l’oncologo, oltre a dare indicazioni terapeutiche per la malattia, dovrebbe essere in grado di considerare la persona nel suo insieme. Ciò, nel contesto della salute sessuale dei malati oncologici, significa introdurre e approfondire il tema con il paziente, per poi valutare a quale degli specialisti è il caso di inviarlo.

Stefano Saldarelli – uno dei pochissimi uomini in Italia a cui è stato diagnosticato un tumore al seno – crede che un buon medico debba necessariamente essere bravo ad ascoltare le paure e i bisogni dei propri pazienti. Dopo l’operazione chirurgica, Stefano ha seguito una terapia ormonale a base di tamoxifene, un farmaco spesso utilizzato nei tumori alla mammella per bloccare la moltiplicazione delle cellule tumorali. Questa terapia, però, può portare degli effetti clinici indesiderati. Infatti, a causa di alcune complicazioni, Stefano ha dovuto interromperla bruscamente e, su raccomandazione della sua oncologa, iniziare un percorso terapeutico con una psiconcologa. 

Oggi il suo tumore è in remissione. Durante la cura, per Stefano è stato fondamentale percepire la presenza e il supporto della sua oncologa. “Mi è stata molto vicina, quasi materna direi. È stata una figura che è andata ben oltre quello che può essere il rapporto medico paziente – continua Stefano – e lo ha fatto in maniera molto spontanea, mantenendo sempre una grande professionalità”.

Stefano è convinto che l’esistenza di un dialogo sincero tra lui e la sua oncologa lo abbia aiutato tantissimo a riprendersi. “Puoi essere il più bravo medico del mondo, ma se ti manca quella scintilla di umanità è dura, soprattutto con questa malattia. Se vedi l’ospedale come un’ulteriore minaccia, dove sei aggredito e non sei considerato una persona ma soltanto un numero, o ancora peggio solo una malattia, è tutto ancora più duro”.

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