Quello che Elon Musk non ha capito sulla moderazione dei contenuti

Il passaggio di Twitter all’imprenditore più ricco del mondo pone un interrogativo fondamentale: cosa ne sarà di tutti i progressi fatti per contrastare le teorie del complotto e la disinformazione?

Quello che Elon Musk non ha capito sulla moderazione dei contenuti

Il passaggio di Twitter all’imprenditore più ricco del mondo pone un interrogativo fondamentale: cosa ne sarà di tutti i progressi fatti per contrastare le teorie del complotto e la disinformazione?

A riprova del fatto che viviamo nella peggiore delle linee temporali possibili, il consiglio di amministrazione di Twitter ha accettato di vendere l’azienda che gestisce il social network più usato da politici, giornalisti e celebrità al mondo a Elon Musk, per l’equivalente di 41 miliardi di euro.

L’accordo dovrebbe essere finalizzato entro la fine dell’anno, e si sa ancora molto poco di ciò che implicherà, nella pratica, per il futuro di Twitter. Ciò che si sa è che, fin dall’inizio, l’imprenditore sudafricano ha sottolineato di non voler comprare l’azienda per motivi economici, ma perché la vuole trasformare profondamente sulla base dell’idea che Twitter sarebbe “la piazza pubblica virtuale dove si dibattono temi vitali per il futuro dell’umanità,” e che quindi assicurare la libertà d’espressione sulla piattaforma sarebbe “un imperativo per la società e per garantire il funzionamento della democrazia.”

Il proposito sarebbe quasi encomiabile, se non provenisse da un individuo che

  1. imbratta sistematicamente la presunta piazza pubblica con l’equivalente digitale di un esercito di peni disegnati sul muro;
  2. ha dimostrato ripetutamente di non rispettare la libertà d’espressione dei dipendenti e i giornalisti che dissentono con la sua visione; e
  3. possiede una comprensione quasi nulla delle sottigliezze e sfumature necessarie a prendere decisioni complesse sulla moderazione dei contenuti, specie se riguardano 400 milioni di utenti in decine di Paesi diversi. A partire dall’idea, fallace, che Twitter sia una piazza pubblica virtuale.

L’acquisto arriva in linea con la privatizzazione massiccia che ha investito il web negli ultimi vent’anni — “molta della nostra vita di comunità ora si svolge in spazi digitali che sembrano pubblici ma non lo sono,” scriveva Eli Pariser nel 2020. Sono i cosiddetti “walled gardens,” ovvero spazi su cui i proprietari hanno completo controllo, e che sono disegnati per massimizzare i profitti, al contrario di spazi effettivamente pubblici. Si tratta di una realtà deprimente, e a cui è importante cominciare a immaginare alternative, ma è la realtà in cui ci muoviamo al momento.

In questa realtà, quindi, Twitter è effettivamente un’azienda molto potente, su cui postano, si informano e si fanno rete alcune delle persone più influenti al mondo.

Twitter, per anni, si è basata sul “free speech maximalism” — ovvero la convinzione che, nel dubbio, sia sempre meglio accettare la presenza di contenuti controversi, violenti e molesti sulla propria piattaforma piuttosto che regolamentarli.

Salvo poi scoprire, come finisce per scoprire chiunque provi a gestire un qualsiasi tipo di sito, che abdicare da decisioni granulari sui comportamenti accettati o meno nel proprio spazio digitale nel migliore dei casi rende quello spazio un inferno su cui è molto poco piacevole passare il proprio tempo, e nel peggiore dei casi finisce per facilitare genocidi.

Le attuali pratiche di moderazione dei contenuti di Twitter sono informate da sedici anni di tentativi ed errori — tanti, tanti errori — in un campo scivoloso e multiforme, ma sono anche tra le più avanzate che ci sono là fuori.

In (tardiva) risposta alla circolazione incontrollata di teorie del complotto, disinformazione e altra tossicità, legate soprattutto alla negazione della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali del 2020 e alla misure di risposta alla pandemia, Twitter negli ultimi mesi ha investito molti soldi ed energie nella verifica, l’etichettatura e la limitazione della diffusione dei contenuti più dannosi, e ha preso posizione nel bandire alcuni dei suoi utenti più tossici, tra cui Donald Trump. Il risultato è distante dall’essere perfetto, ma sono stati fatti molti passi avanti anche soltanto rispetto a sei anni fa.

Proprio perché per costruire queste politiche c’è stato bisogno di tempo, esperienza, studio e un sacco di compromessi, moltissimi esperti del settore sono preoccupati dal fatto che l’ultima parola in materia,  il flusso di denaro e il potere di licenziare o assumere persone, passi ora in mano a una persona la cui comprensione del tema sembra rimasta ferma a free speech maximalism: una soluzione che, ripetiamo, non funziona.

“Quello che Musk apparentemente non riesce a riconoscere è che per avere veramente la libertà di parola oggi, è necessaria moderazione,” ha detto al Washington Post Katie Harbath, ex direttrice delle politiche pubbliche di Facebook e ad della società di consulenza Anchor Change. “Altrimenti, rimangono solo gli utenti più prepotenti e molesti.”

In qualche misura, in realtà, Musk sembra capirlo: in un’intervista, l’imprenditore ha detto che “una sua forte intuizione” è che “avere una piattaforma pubblica che sia massimamente affidabile e ampiamente inclusiva è estremamente importante per il futuro della civiltà.” A parte il fatto che un’azienda acquistata a peso d’oro dall’uomo più ricco del mondo è esattamente il contrario di una piattaforma pubblica, non ha torto: per incoraggiare la discussione di quante più persone possibili, è necessario che uno spazio sia affidabile e inclusivo. Peccato che, nella pratica, questa affermazione cozzi con la comprensione elementare che Musk sembra avere del concetto di libertà di parola.

Come ha scritto Mike Masnick, uno dei più attenti esperti di moderazione dei contenuti sul web anglosassone, “chiunque abbia passato del tempo a lavorare su questi problemi sa che per creare uno spazio massimamente affidabile c’è bisogno di un certo livello di moderazione, perché altrimenti le piattaforme si riempiono di spam e truffe e diventano tutt’altro che affidabili.”

“Per essere ampiamente inclusivi e affidabili bisogna anche riconoscere che i malintenzionati devono essere affrontati, in una forma o nell’altra,” continua Masnick. “Per affrontare lo spam, le truffe e le cose che “rendono molto peggio il prodotto’ [come ha affermato Musk, ndr] devi avere delle regole e devi farle rispettare, il che significa che devi avere persone esperte nella moderazione dei contenuti e che sono in grado di realizzare aggiornamenti e adeguamenti, soprattutto di fronte ad attori malintenzionati che cercano di ingannare il sistema.”

Convincersi del fatto che esista sicuramente un’alternativa alle politiche messe in atto da Twitter e dalle altre grandi piattaforme social che sia più rispettosa di una non meglio definita “libertà di parola,” come sembra star facendo Musk, significa pensare di essere più intelligenti di migliaia di esperti che hanno dedicato anni al raggiungimento dei difficili compromessi sotto cui viviamo oggi.

Ma d’altronde, stiamo parlando di qualcuno che appena un paio di giorni fa ha affermato, con una sicurezza disarmante, di fronte ai suoi 84 milioni di follower che la costruzione di nuovi tunnel è la migliore soluzione al traffico nelle grandi città, anche perché, secondo lui, i tunnel sarebbero “immuni alle condizioni meteorologiche della superficie.” Il riconoscimento dei meriti e dell’expertise altrui, insomma, non è il suo forte.

Con il raggiungimento di un accordo per l’acquisto di Twitter, allora, una delle principali preoccupazioni adesso è che Musk decida di fare tabula rasa su quanto l’azienda ha imparato negli ultimi sedici anni. Se succedesse, scrive il giornalista Charlie Warzel, vedremmo il ritorno di una filosofia aziendale “eccessivamente semplicistica, o ingenua riguardo alle sfumature della gestione di una piattaforma tecnologica su larga scala.” E, soprattutto nell’attuale contesto sociopolitico mondiale, sarebbe una cosa veramente stupida da fare, da parte di qualcuno che è convinto di essere un genio.

in copertina: Musk con i resti di un prototipo di razzo Falcon 9. Foto CC BY 2.0 Steve Jurvetson

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