In collaborazione con MUBI
Il film della regista tanzaniana-americana Ekwa Msangi racconta una storia di migrazione senza costruire una narrazione sulla straordinarietà dei singoli, preferendo concentrarsi sulla sfera emotiva dei propri personaggi.
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Presentato al Sundance Film Festival del 2020, Farewell Amor è l’opera prima della regista tanzaniana-americana Ekwa Msangi. Il film, distribuito in Italia da Mubi, racconta prima di tutto una storia d’amore e migrazione, ma va oltre agli stilemi che di solito caratterizzano questi generi cinematografici. La pellicola si apre con una scena in aeroporto. Walter — interpretato dal bravissimo Ntare Guma Mbaho Mwine — si ricongiunge a New York con la sua famiglia dopo 9 anni di distanza. Fuggito dalla guerra civile angolana, si è trasferito negli Stati Uniti per garantire un futuro migliore a Esther (Zainab Jah) e alla piccola Sylvia (Jayme Lawson) e sopravvive facendo il tassista. Ma dopo un decennio di lontananza molte cose sono cambiate, e i tre devono ritrovare una difficile normalità familiare.
La trama di Farewell Amor è ispirata alle vicende di due zii della regista che ad oggi ancora faticano a ricongiungersi dopo decenni di lontananza. È facile immaginare che la storia di Walter, Esther e Silvya sia anche quella di tantissimi migranti. Sono le modalità con cui viene affrontato questo argomento, molto ricorrente sia nella letteratura che al cinema, a rendere il film molto interessante. A differenza ad esempio di Chimamanda Ngozi Adichie in Americanah (Einaudi, 2014), Msangi lavora da subito per de-politicizzare quasi del tutto la personalità degli individui che racconta. Sì, questa è la storia di tre persone provenienti dall’Angola: ma per stessa ammissione della regista-sceneggiatrice questo è un racconto di migrazione che assume il valore di una narrazione universale, al di là delle sue specifiche implicazioni. I protagonisti vengono descritti a partire dai loro sentimenti, con tutte le difficoltà che incontrano adattando la loro identità ad un mondo nuovo. Il loro essere “altro” non viene ridotto però solo a una prospettiva di lotta razziale. Al centro della narrazione non c’è la straordinarietà dei singoli, che spesso serve a giustificare il loro pieno inserimento in una società occidentale: ci sono piuttosto le emozioni dei protagonisti, la loro interiorità così scandalosamente normale.
Il film è diviso in tre capitoli dedicati ai tre personaggi principali — un modo per permetterci di riesaminare e contestualizzare gli avvenimenti narrati. Nel primo Msangi si concentra sul punto di vista di Walter e sulla sua vita a Brooklyn lontano dall’Africa. Durante la prima notte con sua moglie, Esther gli confessa di essere rimasta nubile per lui, aspettando il momento in cui si sarebbero ritrovati. Walter però non riesce a trovare un’intimità con sua moglie perché è ancora innamorato di Linda, un’infermiera americana con cui ha avuto una relazione. Dunque la tanto agognata riunificazione per Walter è quindi fondata su una rinuncia dolorosa e su un perenne senso di inadeguatezza. Della donna che aveva amato in Angola è rimasto soprattutto il ricordo, così come del suo paese verso cui prova la nostalgia tipica di chi è costretto a vivere lontano dalle proprie radici.
Il capitolo più dinamico è dedicato alla giovane Sylvia, che deve separarsi dal suo mondo e dai suoi amici per trasferirsi negli Stati Uniti — dove non solo si deve relazionare per la prima volta con la figura paterna, ma anche fare i conti con la scuola americana. Qui però conosce DJ, interpretato da Marcus Scribner (Black-ish), con il quale instaura un bel feeling. Il ragazzo sembra capirla sin da subito e non a caso le propone di iscriversi a una gara di ballo. La giovane infatti, nonostante sua madre dica che lei voglia fare il medico, in realtà condivide con il padre la passione per la danza, interpretata nel film come un mezzo espressivo e liberatorio. Le scene più intense dell’intero film sono proprio quelle in cui Walter e Sylvia ballano: il primo una lenta e sensualissima Kizomba con Lisa, la ragazza un assolo intenso e vitale di Kuduro di fronte a una platea pronta a farla a pezzi.
“In questo Paese i neri non hanno una vita semplice, soprattutto se stranieri. Bisogna sempre comportarsi in un certo modo, così che i bianchi non si sentano minacciati. È solo quando ballo che sento di avere un posto in cui essere me stesso. In cui mostrare me stesso. Sii te stessa, sei l’unica a sapere ciò che sa e sa fare ciò che fa.” — Walter (Farewell Amor)
Infine, il film si chiude mostrando la storia di Esther, che si trova a dover ricominciare da capo in una terra che non sente sua. In attesa che le venga dato il visto per poter lavorare, la donna passa gran parte del giorno in casa, pulendo e pregando. Di lei sappiamo che dopo la guerra ha lasciato l’Angola si è trasferita in Tanzania, dove per sentirsi parte di “una comunità” è entrata in un fervente gruppo religioso. Questo bisogno di appartenenza sembra utile per attenuare il caos, ma lontano dal suo gruppo Esther acquista una nuova consapevolezza di sé che la porta a mettere in discussione le sue certezze religiose — e quindi a entrare in una crisi profonda d’identità.
“Sorella Redempta, è solo che sento che il nostro sia un gioco ineguale” — Esther (Farewell Amor)
La bellezza di questa pellicola sta proprio nel forte senso di empatia che vuole stabile con noi, facendo appello anche a un certo racconto dei sentimenti e a un senso di malinconia — o meglio, di saudade — che riesce a colorare i personaggi. Parlando al Q&A organizzato da MUBI per l’uscita del film, Msangi spiega in modo efficace perché ha deciso di raccontare questa storia: “La maggior parte dei film che ho visto o che sono diventati popolari si basano su un sistema hollywoodiano, parlano in genere di casi eccezionali di migranti africani, o dei casi più complicati, degli africani con le maggiori difficoltà. Sì, sono storie di migranti, ma non ero molto interessata a parlare degli aspetti politici dell’immigrazione. […] Per le persone è più difficile relazionarsi alla storia se questa tratta di un problema politico specifico, di cui magari non sono mai state vittime, certo possono provare compassione, ma tutti hanno avuto esperienza di delusioni amorose, hanno sentito una mancanza, tutti noi sappiamo cosa significhi essere nuovi in un ambiente totalmente estraneo. Credo che il modo per riconoscerli come individui è conoscere i loro sentimenti.”
In questo senso Farwell Amor è una storia di addii — farewell — e non, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, una storia di ricongiunzione. Alla fine del film non sappiamo veramente cosa sarà dei protagonisti, se riusciranno effettivamente ad essere una famiglia superando i loro personali drammi. Sta allo spettatore immaginare la possibilità di una più profonda riconciliazione, oppure la definitiva separazione emotiva — e fisica — dei tre protagonisti.