I più poveri non avranno nessun vantaggio dalla riforma dell’Irpef
Per i redditi fino a 15 mila euro non cambierà nulla, mentre i benefici maggiori saranno per chi guadagna tra 28 mila e 55 mila euro: meno del 20% della popolazione
Per i redditi fino a 15 mila euro non cambierà nulla, mentre i benefici maggiori saranno per chi guadagna tra 28 mila e 55 mila euro: meno del 20% della popolazione
Dopo giorni di trattative, la maggioranza ha raggiunto un “accordo politico” sulla riforma del fisco. Se sarà confermata la bozza attuale, la riforma avvantaggerà — non sorprendentemente — soprattutto i più ricchi: invece di andare verso una maggiore progressività, le aliquote Irpef vengono ulteriormente ridotte da 5 a 4, eliminando quella al 41%, riducendo al 25% quella che attualmente è al 27% e al 35% quella che attualmente è al 38%. Nelle intenzioni del governo, si tratta di un primo passo verso un’ulteriore riduzione delle aliquote a 3: 23%, 33%, 43%.
Come si vede dal confronto tra le due tabelle, i redditi più bassi — fino a 15 mila euro — non avranno nessun beneficio dalla riforma e continueranno a pagare il 23%. La riduzione più consistente si avrà per i redditi da 28 mila a 55 mila, mentre i redditi da 15 mila a 28 mila avranno un beneficio minimo — ulteriormente ridotto dal venir meno del bonus degli 80 euro, recentemente aumentato a 100. I redditi più alti, invece, avranno un aumento solo apparente: l’Irpef infatti si paga a scaglioni, per cui anche chi guadagna più di 75 mila euro beneficerà della riduzione delle aliquote sugli scaglioni precedenti.
Non è una novità: negli ultimi 40 anni, nonostante la retorica della destra berlusconiana, le tasse per i ricchi in Italia sono scese costantemente. Al momento della sua istituzione, nel 1974, l’Irpef prevedeva 32 scaglioni di reddito, con l’aliquota più bassa al 10% e quella più alta — per i redditi oltre i 500 milioni di lire — che arrivava al 72%. Oltre a varie riduzioni degli scaglioni e del loro spessore, come quello in discussione in questi giorni, si è anche assistito a una diminuzione nella tassazione delle imprese: il prelievo dell’Ires, la tassa sui profitti delle imprese, è passato dal 37% nel 2000 al 24% nel 2017. Un bel guadagno per i più ricchi, che si è scaricato ovviamente sulle spalle dei più poveri.
A questo proposito si sente dire che la riforma avvantaggerà soprattutto “i ceti medi,” ma basta andare a vedere i dati sulle dichiarazioni dei redditi 2021 pubblicati dal MEF per capire che non è così: il reddito medio dichiarato in Italia è pari a 21.060 per i lavoratori dipendenti, 18.290 euro per i pensionati. Nel complesso, quasi il 60% dei contribuenti italiani dichiara fino a 20 mila euro. Questa presunta riduzione del carico fiscale sui ceti medi è sponsorizzata soprattutto dal Pd — che sembra assurdamente convinto che una persona che guadagna 4 mila euro al mese sia un esponente di questo fantomatico “ceto medio.”
Elaborazione dati MEF via OCPI
Per il taglio dell’Irpef saranno stanziati 7 degli 8 miliardi complessivi destinati alla riduzione delle tasse, mentre un solo miliardo sarà destinato al taglio dell’Irap per le imprese. Per questo, Confindustria ha già espresso la propria contrarietà. Scettici anche i sindacati, che lamentano uno scarso coinvolgimento da parte del governo nella stesura della riforma.
L’unico modo per cui questa riforma può essere spacciata per progressista è il paragone con le proposte estremiste in arrivo da destra, soprattutto l’istituzione della flat tax: un’idea fortemente reazionaria che potrebbe essere addirittura incostituzionale in quanto metterebbe in discussione la progressività del fisco sancita dalla Costituzione: una progressività che però sta venendo erosa sempre più da decenni di governi che, di fatto, hanno come priorità la difesa degli interessi dei ceti più abbienti.
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in copertina, foto CC-BY-NC-SA 3.0 IT Presidenza Consiglio dei Ministri