in copertina, Caster Semenya alle Olimpiadi di Londra del 2012. Foto cc Jon Connell
L’eccezionalità fisica degli atleti è celebrata, mentre quella delle atlete è utilizzata per punirle. Oltre agli scandali delle scorse settimane, le Olimpiadi hanno una lunga tradizione di razzismo, misoginia e transfobia
Prima posticipate di un anno per ovvie ragioni pandemiche, ora sorvolate da una nube di proteste da parte di quel 78% di giapponesi che è contrario al loro svolgimento, le Olimpiadi di Tokyo dovrebbero essere inaugurate il 23 luglio ma non si aprono certo tra i migliori auspici — anche volendo ignorare il fatto che per fare spazio alle nuove strutture sportive sono state sfrattate, come succede sempre, moltissime persone senzatetto e abitanti di case popolari.
Tra notizie assurde sui letti di cartone che avrebbero dovuto evitare che gli atleti facessero sesso tra loro e il numero di positivi al Covid all’interno del villaggio olimpico che sale di giorno in giorno, però, l’evento ha dimostrato di avere un altro enorme problema che non ha nulla a che fare con la pandemia: l’inclusività.
Nel 1896, in vista dei primi Giochi olimpici dell’èra moderna, il fondatore Pierre de Coubertin escluse la possibilità che le donne vi partecipassero in generale: “un’Olimpiade con le femmine sarebbe poco pratica, poco interessante, antiestetica e impropria,” disse. Alle donne non sarebbe stato permesso di competere in una maratona a livello olimpico per un altro secolo, ma nel 1900 venne concesso — grazie! — di competere nel golf e nel tennis. Ironicamente, lo statuto officiale del Comitato olimpico internazionale afferma che “ogni forma di discriminazione nei confronti di un Paese o di una persona per motivi di razza, religione, politica, sesso o altro è incompatibile con l’appartenenza al movimento olimpico.” A ben guardare molte delle scelte che sono state prese anche nel solo mese precedente al lancio di Tokyo 2020, però, non si direbbe che la situazione stia esattamente così.
A inizio luglio, la Federazione Internazionale del Nuoto ha deciso che le cuffie progettate per capelli neri naturali — utilizzate da atlete come Alice Dearing, la prima nuotatrice nera a rappresentare il Regno Unito alle Olimpiadi — non saranno ammesse alle Olimpiadi perché “non si adattano alla forma naturale della testa” e “per quanto ne sa gli atleti che gareggiano negli eventi internazionali non hanno mai usato né richiedono cuffie di tali dimensioni.” La scelta è stata pesantemente criticata da organizzazioni di nuotatori neri, che hanno sottolineato come la storica cuffia da nuoto su cui si basano tutte le cuffie permesse alle olimpiadi sia stata disegnata per capelli caucasici, e che quindi non risponde alle necessità di chi ha capelli afro. “Inclusività è rendersi conto che non esiste una forma della testa normale,” ha affermato Danielle Obe, fondatrice della Black Swimming Association.
Ha suscitato altrettanto scalpore l’esclusione dai Giochi della velocista statunitense Sha’Carri Richardson, favorita per l’oro nei 100 metri, risultata positiva al THC un mese prima dell’inizio delle Olimpiadi. Richardson ha spiegato di aver fumato marijuana per sfuggire a uno stato mentale di enorme shock emotivo dopo aver scoperto della morte di sua madre in un’intervista mentre si allenava in Oregon — dove, come ormai in buona parte degli Stati Uniti, la cannabis è al 100% legale. Le regole, come ha affermato anche Joe Biden, “sono le regole, e tutti conoscevano le regole… ma ciò non vuol dire che dovrebbero rimanere uguali.”
Considerato che non c’è nessuna evidenza scientifica che dimostri che il THC migliori le performance atletiche, e che la marijuana è stata aggiunta all’elenco delle sostanze vietate soltanto nel 1998, dopo che l’Office of National Drug Control Policy statunitense ha affermato che avere atleti che fumano “minava direttamente il messaggio secondo cui fare uso di droghe rovina le opportunità di successo dei giovani,” la sospensione ha comunque sollevato un giusto polverone — al punto che l’agenzia antidoping di Washington ha detto che il regolamento internazionale in merito dovrebbe essere rivisto.
La controversia più accesa è però senza dubbio quella che circonda la questione dei livelli di testosterone individuati nelle velociste cis e trans durante la fase di qualificazione ai Giochi.
If your testosterone test is regularly flagging several cis women at the top of their game as “not female enough” for the Olympics, your test is the problem, not the women. Natural variation in bodies is praised as “talent” in men, while treated as a disqualifier for women
— Louisa 🌈👭 (@LouisatheLast) July 2, 2021
La pratica di effettuare test obbligatori per assicurarsi del sesso di atlete e atleti affonda le sue radici nella Guerra fredda: il primo test di ampia scala risale al Campionato europeo di atletica del 1966, in seguito a sospetti secondo cui le migliori atlete dell’Unione sovietica e dell’Europa centro-orientale fossero in realtà uomini cisgender.
Il test obbligatorio venne introdotto per le Olimpiadi nel 1968, e da allora è stato responsabile di campagne di mobbing su scala internazionale, isolamento sociale di atleti e atlete che falliscono i test, mutilazioni genitali, interventi chirurgici di riassegnazione del sesso forzati, depressione e suicidi. Inizialmente, alle atlete veniva chiesto di sfilare nude di fronte a un team di dottori. Per un periodo ci si è poi affidati a un test cromosomico che doveva identificare il cromosoma Y e scovare così eventuali atleti uomini travestiti da donne. Anche questo metodo è stato abolito dopo che ci si è resi conto che non esisteva veramente il pericolo che gli uomini si travestissero da donne per gareggiare, ma che il test si rivelava molto intrusivo e spiacevole per le rare atlete nate con difetti genetici che secondo l’esame del DNA erano uomini. “Era una pratica immorale, non scientifica e discriminatoria,” ha affermato Arne Ljungqvist, presidente della commissione medica del Comitato olimpico internazionale, che ha abolito il test cromosomico nel 1999.
Perché allora ci troviamo ancora a escludere le atlete sulla base dei risultati molto questionabili di test di verifica del sesso nell’anno del signore 2021? La questione è rientrata dalla porta sul retro nel 2009 per via della campionessa olimpica sudafricana intersex Caster Semenya, a cui è stato assegnato il genere femminile alla nascita, ma il cui corpo produce livelli di testosterone al di sopra della media.
Posta di fronte a un dubbio sul da farsi, la International Association of Athletics Federation (IAAF) ha optato per la via più discriminatoria, e nel 2011 ha istituito nuove norme in materia di livelli ormonali per gli atleti, obbligando le donne con iperandrogenismo — la condizione fisica che porta all’eccessiva produzione di testosterone — ad abbassare artificialmente i livelli di testosterone nel proprio sangue se vogliono continuare a competere come donne perché “è noto che la differenza nelle prestazioni atletiche tra maschi e femmine è principalmente dovuta a livelli più elevati di ormoni androgeni nei maschi con conseguente aumento della forza e dello sviluppo muscolare.” Questo nonostante il testosterone non sia ritenuto rilevante nel prevedere le prestazioni atletiche degli atleti uomini: “La gamma maschile va dai 10 ai 25 nanomoli di testosterone per litro, e non si può dire che una persona con un livello di 25 supererà necessariamente una con un livello di 10”, ha spiegato l’endocrinologo Richard Holt.
In pratica, considerando che non viene sicuramente permesso loro di competere contro i velocisti uomini, da allora le atlete iperandrogine sono totalmente escluse dalle competizioni ufficiali — e dalla conseguente possibilità di ottenere fama e soldi grazie alle proprie capacità — a meno che non si sottopongano a modifiche corporee drastiche che hanno seri effetti collaterali. Nel 2019, Semenya ha denunciato l’IAAF per discriminazione, ma un panel di tre esperti di sport ha definito il test ormonale “discriminatorio ma necessario” e non è cambiato nulla. Il che esclude da Tokyo, su pura base ormonale, diverse atlete: Semenya, ma anche le velociste namibiane cisgender Christine Mboma e Beatrice Masilingi, e la velocista trans statunitense CeCe Telfer. La pesista neozelandese Laurel Hubbard è invece riuscita a qualificarsi, e diventerà la prima atleta transgender a competere alle Olimpiadi in una disciplina individuale.
Il tutto viene giustificato guardando attraverso la lente di una presunta “equità” — lo stesso concetto che sta al centro dell’attuale crociata transfobica dei conservatori statunitensi. Eppure, come spiega la giornalista scientifica Sarah Chodosh, “l’idea che una variazione naturale nel corpo di alcune donne sia in qualche modo ingiusta cozza con il fatto che esaltiamo gli atleti maschi con abilità insolite. I muscoli di Michael Phelps producono metà dell’acido lattico di una persona normale, permettendogli di spingersi molto più a lungo senza fatica. Lo sciatore di fondo finlandese Eero Mäntyranta ha una mutazione ereditaria che aumenta la capacità di trasporto di ossigeno dei suoi globuli rossi dal 25 al 50 percento, che è l’equivalente genetico del doping. Questi uomini vengono celebrati, non puniti.”
Come scriveva Jen Doyle nel suo Sport Spectacle sul caso Semenya in tempi non sospetti, allora, la fantasia secondo la quale gli sport femminili sarebbero destinati ad essere distrutti da donne, cis o trans che siano, con diversi livelli ormonali è — appunto — una fantasia che “infligge sugli sport femminili una fragilità sorprendente, benché quasi tutti gli sport femminili siano soppravvissuti all’attiva soppressione imposta loro dagli uomini con regolamenti arbitrari e divieti assoluti (come il limite di tre set invece che cinque nelle partite di tennis femminili, l’esclusione delle donne dalle maratone e il divieto quasi assoluto di praticare il calcio femminile).”
“Lo sport femminile non è una struttura difensiva dalla quale gli uomini sono esclusi affinché le donne possano prosperare,” continua Doyle. “A dire il vero, è l’esatto opposto: si tratta, in potenza, di uno spazio radicalmente inclusivo che ha la capacità di distruggere le idee del pubblico sul genere e sulla differenza di genere. Le atlete competono come donne in virtù dell’allineamento della loro identità (come la percepiscono loro, come la percepiscono gli altri) con questa categoria di genere già esistente. Questo allineamento non è stabile; è uno spazio di negoziazione costante. Ed è obbligatorio. Non abbiamo sport per donne perché le donne hanno bisogno di essere protette dagli uomini. Abbiamo gli sport femminili perché il mondo ha le atlete.”
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