Prima il silenzio: immagini dalla pandemia in Val Sabbia
La Val Sabbia è un territorio impervio, di piccoli paesi montani divisi da cime, valli, fiumi più o meno grandi e il lago d’Idro al centro. E poi le fabbriche. Acciaierie e maniglierie.
testo Marta Clinco, Simone Cargnoni
foto Simone Cargnoni
Atlas è il nostro spazio dedicato all’immagine e alla fotografia contemporanee. Ogni settimana raccontiamo un nuovo progetto attraverso una selezione di immagini e contributi degli autori, con un occhio di riguardo a editoria indipendente e autoproduzioni
L’8 marzo 2020 la Lombardia viene dichiarata zona rossa.
Mi trovavo a Treviso Bresciano, un minuscolo comune della Valle Sabbia, dove sono cresciuto e ho vissuto fino all’età di 18 anni.
La Val Sabbia è un territorio impervio, di piccoli paesi montani divisi da cime, valli, fiumi più o meno grandi e il lago d’Idro al centro. E poi le fabbriche. Acciaierie e maniglierie. Da adolescente vedevo questo posto chiuso al resto del mondo, gli abitanti fortemente attaccati alle proprie radici, al proprio territorio e al lavoro. La cosa più importante pareva essere sempre il lavoro. Fisso, sicuro, ineluttabilmente legato alle fabbriche della valle. Dopo le scuole superiori sono letteralmente fuggito a Trento. Lì ho iniziato ad avvicinarmi al video e alla fotografia che è stata da subito per me una questione fisica, di contatto con l’altro. Mi piaceva sporcarmi un po’ delle emozioni dei soggetti fotografati per poterle catturare, rielaborarle, e restituire fotografate a chi le avrebbe guardate.
Portare avanti questo progetto fotografico nella Val Sabbia in una condizione di distanza interpersonale per salvaguardare sé stessi e gli altri non è stato difficile, ma strano. Arrivavo nei paesi dove volevo fotografare con già una forte sensazione di malessere, che sapevo avrebbe potuto influenzare le mie fotografie, e non volevo assolutamente questo. Quindi per cercare di evitarlo mi sono mosso in due modi completamente differenti: in primo luogo cercavo di cogliere le cose che mi si presentavano al volo, spesso fermando l’auto a bordo strada, scendendo e andando a scattare in pochi secondi quello che aveva catturato la mia attenzione. Cercavo di focalizzare il mio cervello e il mio corpo sull’urgenza della foto che sarebbe scomparsa di lì a poco, senza che il mio umore potesse influenzare lo scatto. In altre occasioni ho fatto esattamente l’opposto. Fortunatamente la fotografia consente di stabilire sempre un contatto, di trovare in qualche modo un legame con chiunque si abbia davanti, e ciò dimostra che fotografare non è solo creare delle immagini. Nei luoghi dove sapevo sarei rimasto per diverse ore o giorni, ho dedicato più tempo a capire chi avessi davanti, ad ascoltare la loro storia, creare delle relazioni.
Il progetto cui sto ancora lavorando in Val Sabbia è tutto in bianco e nero. Questo perché osservando i vecchi lavori realizzati negli anni scorsi a colori mi rendo conto che in realtà sono quasi delle monocromie o bicromie che variano per sfumature. Tavolozze che pescano dai rossi ai gialli con qualche sfumatura di fuxia, come fossero vari toni di grigi.
Ho deciso di concentrare il mio lavoro fotografico sul covid in Valle Sabbia perché l’effetto di un’emergenza sanitaria qui è molto diverso che in città. In questo piccolo pezzo di mondo, che la morte arrivasse in un paese piuttosto che in un altro, era una perdita che toccava tutti. La popolazione della valle – vuoi per parentela, lavoro, amicizie – è in qualche modo tutta collegata. Ho indagato le reazioni all’avanzata del virus, la solitudine, la paura, il lutto; la ricerca di speranza nella scienza e di conforto nella religione. Ho visto una cementificazione dei rapporti già esistenti e l’abbattimento di molti muri, un nuovo tipo di coesione e di inclusione, che spero non essere frutto solo dell’emergenza, ma un nuovo e migliore modo di aiutarsi a vicenda, non solo nella difficoltà. Mi sono trovato a fotografare una comunità in lotta non solo per la sopravvivenza fisica dei propri abitanti, ma anche per ridefinire quale sia la propria esistenza e identità oggi.
A maggio 2020 una prima parte del lavoro è stata presentata sul sito di Arcipelago19 col titolo “Prima il silenzio” – l’edit è di Giulia Ticozzi. Il lavoro è completato da un testo-riflessione di Martina Melilli.
A novembre 2020 “Prima il silenzio” è stata in mostra a Ruvo Di Puglia, all’interno del programma di LINEA Festival. Per permettere una fruizione sicura, le fotografie sono state presentate in gigantografie appese nella piazza centrale del paese.
Il mio lavoro fotografico sulla Valle Sabbia sta continuando. L’obiettivo è concludere a fine 2021 raccogliendo questi scatti in un libro fotografico.
BIO
SIMONE CARGNONI (1984) è un fotografo bresciano.
Dal 2014 è socio di Jump Cut, realtà che si occupa di cinema e fotografia, con sede a Trento. Ha iniziato il lavoro come fotografo nei teatri e ai concerti. Negli ultimi anni ha sviluppato l’interesse per il reportage fotografico in cui pone al centro la persona e il rapporto con la società. Nei suoi lavori predilige l’approccio documentaristico.
Fa parte del collettivo fotografico Arcipelago19.
Ha esposto: nel 2014 “Please Close Your Eyes” all’International Literature Festival di Berlino (GER); nel 2015 “Vidas” alla galleria CRT di Trento (IT); nel 2016 “Street Photography” al Museo Nazionale della fotografia di Brescia (IT); nel 2016 “Massimo Pumilia” a Villa Pignatelli a Napoli (IT), al complesso monumentale di Santa Sofia a Salerno (IT); nel 2020 “Prima il silenzio” mostra per Linea Festival a Ruvo di Puglia (IT).
Ha all’attivo due libri fotografici: “Marlene Kuntz | 3 di 3” (Sony 2014) e “Colapesce & Infedele Orchestra” (42Records 2018).
Ha pubblicato con: Rolling Stone, Rockerilla, XL di Repubblica, L’Espresso, La Repubblica, Corriere della Sera, Internazionale, Stern.