Gli Stati Uniti sono rientrati negli accordi di Parigi, ma la parte difficile comincia ora
A cinque anni dall’accordo, i paesi del mondo ancora non hanno mosso nessun passo decisivo verso la transizione energetica, e negli Stati Uniti Biden dovrà contare su una maggioranza molto fragile
A cinque anni dall’accordo, i paesi del mondo ancora non hanno mosso nessun passo decisivo verso la transizione energetica, e negli Stati Uniti Biden dovrà contare su una maggioranza molto fragile
Ieri gli Stati Uniti sono ufficialmente rientrati negli Accordi di Parigi. L’amministrazione Biden sta lavorando alacremente per recuperare il tempo sprecato da Trump — tre anni per revocare l’adesione, e poi 107 giorni fuori dagli accordi. L’obiettivo è di presentare il prossimo 22 aprile — il “Giorno della Terra” — un progetto attuativo per arrivare agli obiettivi del 2030. Il progetto sarà certamente molto ambizioso, come indicato anche dall’ordine esecutivo per attivare il rientro, una delle decisioni confermate durante il primissimo giorno della presidenza Biden: l’amministrazione vuole avere tempo per ricostruire la propria credibilità in modo da arrivare pronta al prossimo novembre — quando si terrà la COP26 a Glasgow.
La notizia è stata data da John Kerry, che per l’amministrazione si occupa di emergenza climatica, e che ha apertamente attaccato la Casa bianca di Trump, sull’argomento “imperdonabilmente assente” per tre anni. Kerry ha inquadrato l’obiettivo di arrivare alle riduzioni accordate entro il 2030 — obiettivi che, ricordiamo, non saranno sufficienti per limitare l’aumento della temperatura globale media a 2° C e che comunque il mondo non sta rispettando — dicendo che si sta aprendo “un decennio decisivo.”
Rientrare negli Accordi di Parigi era la parte facile — ora inizia invece la parte difficile: sono passati cinque anni da quando è stato siglato l’accordo, ma i paesi del mondo, a parte Stati Uniti, non hanno ancora dimostrato di sapere che aspetto avrà la transizione energetica necessaria per salvare il pianeta. Lo scorso anno i lockdown hanno avuto un insperato effetto positivo sulle emissioni globali di CO2, ma l’effetto della forzata ripartenza economica nei prossimi mesi potrebbe tradursi in un “rimbalzo” — ne avevamo parlato già lo scorso anno specificamente per la situazione in Cina. Il problema non è semplicemente logistico: nel realizzare la transizione sarà complesso anche garantire l’occupazione delle persone che lavorano in settori che dovranno essere accantonati, in particolare in paesi, come gli Stati Uniti, dove i posti di lavoro creati dalle energie rinnovabili hanno tassi di sindacalizzazione drasticamente più bassi rispetto a filiere più datate, dove quindi i lavoratori sono meglio organizzati.
— Ascolta il podcast: Biden non può salvare gli Stati Uniti
Di fronte a una sfida che fa sembrare la gestione di una pandemia una cosa da poco — un nesso che il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres ripete ogni volta che ne ha occasione — il problema resta comunque politico. Negli Stati Uniti come nel mondo le politiche energetiche e industriali della destra internazionale sono, per usare le parole del noto foglio comunista the Economist, “nichiliste in modo impareggiabile.” E le loro idee hanno influenzato diverse compagini all’interno dei partiti di centro.
Nelle scorse settimane si è molto celebrato il pareggio dei democratici al Senato, che, grazie al voto della vicepresidente Harris, può contare su una fragilissima maggioranza in entrambe le camere. Ma la materia ambientalista è troppo delicata perché il partito resti unito in modo stabile, e al Senato i democratici hanno tra le proprie fila anche Joe Manchin, che, come dire, è ancora molto affezionato al carbone. La fragile maggioranza in Senato dei democratici vuol dire che un solo senatore retrogrado è in grado di bloccare la politica ambientale di tutto il paese, e il progetto per il 2030, che verrà presentato nelle prossime settimane, sarà inevitabilmente condizionato dal grande freddo che ha travolto il Texas in questi giorni: i repubblicani sono riusciti a imporre nella conversazione che i blackout siano stati causati dalla crescente dipendenza della rete elettrica statunitense dalle rinnovabili, anche se non è vero. Ora l’amministrazione Biden deve fare di corsa, e i programmi decennali rischiano di essere condizionati da eventi di stretta attualità.
Per realizzare la transizione energetica a livello globale bisognerà anche rivedere drasticamente come pensiamo al mercato — una sfida particolarmente ardua dopo anni in cui le destre hanno riportato in auge il protezionismo — e le misure che proteggono la proprietà intellettuale. Sul primo fronte, gli Stati Uniti e l’Europa devono fare i conti con la leadership globale cinese nella produzione di pannelli solari e di batterie al litio — due punti cardine per la produzione e lo stoccaggio dell’energia nei prossimi anni.
Dieci giorni fa, quindi già in piena amministrazione Biden, la International Trade Commission, l’agenzia federale bipartisan che affianca il governo nella gestione del mercato e determina gli standard di import negli Stati Uniti, ha preso le parti di LG Chem in un caso su segreti industriali infranti, imponendo un blocco all’import di 10 anni dei prodotti di un’azienda — la SK Innovation — che produce batterie per Volkswagen, Ford, e General Motors. Non è particolarmente rilevante quale delle due aziende sudcoreane abbia ragione in materia — il dato di fatto è che per una formalità si sono messi a repentaglio i piani di transizione a modelli elettrici di tre enormi aziende automobilistiche, e ora sono in pericolo numerosi posti di lavoro nelle nuove filiere della transizione ecologica, che Biden vorrebbe espandere a ogni costo.
In copertina, foto via Twitter
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