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I posti chiave sono meno dei partiti che vorrebbero metterci le mani sopra — e che comunque non sembrano avere grande interesse nel portare avanti un qualunque programma

Il voto su Rousseau per sancire il supporto del M5S al governo Draghi si è concluso senza sorprese: su 74.537 votanti, la percentuale dei sì è stata di 59,3%. La notizia è stata accolta con tripudio dai vertici del partito, mentre Alessandro Di Battista ha deciso di andarsene — in un video su Facebook, sull’orlo delle lacrime, ha detto che da ora in poi non parlerà più “a nome del Movimento 5 Stelle,” perché “il Movimento 5 Stelle non parla più a nome mio.”

Ora che il sostegno del principale partito in Parlamento è assicurato, può finalmente partire in tutta serenità il totoministri, quest’anno reso particolarmente difficoltoso dalla riservatezza mostrata finora da Draghi nelle proprie manovre. L’incognita preliminare riguarda l’esatta proporzione di tecnici e di politici con cui sarà composto il nuovo governo. Ci sono pochi nomi che sembrano più di una speculazione di cronaca politica: si parla di un possibile arrivo dell’ex presidente della Consulta — appartenente a Cl — Marta Cartabia al ministero della Giustizia, e di una possibile riconferma di Lamorgese all’Interno. Molte ricostruzioni parlano di una squadra “con tante donne,” ma per in assenza di comunicazioni ufficiali è impossibile esserne certi. Draghi potrebbe sciogliere i dubbi presentandosi già oggi pomeriggio al Quirinale, o al massimo domani.

L’evasività del presidente del Consiglio incaricato potrebbe essere un indizio del suo futuro modo di operare. Già lo scorso fine settimana, Draghi si era ritirato nella sua villa di Città della Pieve, suo paese d’origine in Umbria, per cominciare a definire il programma e la squadra dei ministri. Una bella differenza rispetto a quanto il paese era stato abituato solo fino alla settimana precedente, con tavoli programmatici, consultazioni romane e riunioni interminabili tra Conte e i partiti e tra i partiti stessi. Le forze politiche che compongono la maggioranza sembrano insomma messe in secondo piano rispetto alle decisioni che contano: il dato più concreto delle trattative per la formazione del governo infatti è stato finora proprio la debolezza dei partiti nel cercare di avanzare propri candidati per i ministeri. Una debolezza dovuta all’ampiezza della maggioranza, che rende l’importanza di ogni gruppo molto relativa, per banali ragioni numeriche: i posti chiave sono meno delle forze politiche che vorrebbero metterci le mani sopra, e che non hanno un vero potere ricattatorio nei confronti di Draghi — come invece ce l’aveva Renzi nei confronti di Conte.

Draghi stesso sembra conscio e a suo agio con questo poco potere dei partiti e con le lodi sperticate che continuano a profondere nei suoi confronti. L’impressione, durante le trattative, è che il presidente del Consiglio incaricato abbia detto a tutti gli interlocutori politici quello che volevano sentirsi dire, o — nel migliore dei casi — che non abbia posto obiezioni a quello che loro dicevano a lui. Non si spiega quindi come mai Salvini sia potuto uscire dal colloquio con Draghi, secondo il Manifesto, rassicurato che Draghi non intenda affrontare la transizione green “in pragmatico e non ideologico” e che successivamente Grillo abbia potuto portare a casa l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo economico. Qualcuno, evidentemente, non sta dando peso alle parole, o sta distorcendo i fatti.

Le altre forze della maggioranza che componeva il governo Conte non sono preoccupate di questa forza schiacciante emanata da Draghi senza fare nulla, semplicemente con la sua presenza sulla scena politica — anzi, sembrano sono sollevate dalla scelta governista del M5S. In particolare il Pd, che vede nel voto di ieri anche una conferma della coalizione “di centrosinistra” che si è particolarmente impegnato a consolidare negli ultimi due anni. Zingaretti ha parlato di “profonda sintonia” con i primi accenni del programma di Draghi e si è limitato a chiedere al premier incaricato “una squadra autorevole” e “un programma preciso e circostanziato” — ovvero: non proponendo nulla e confermando di essere disposto ad accettare qualsiasi cosa che Draghi imporrà. Il Pd è arrivato alla logica conclusione della sua linea politica, che negli ultimi anni è stata unicamente quella di presentarsi come il partito presentabile dei competenti: ora che a Palazzo Chigi c’è il tecnico più competente del mondo, che bisogno c’è di disturbarsi a pensare e avanzare proposte?

Alla fine, dopo giorni di dubbi, sembra che anche Leu entrerà nel governo in nome della continuità nella coalizione. La piccola formazione alla sinistra del Pd langue nei sondaggi ed è politicamente divisa, ed è sembrata meno entusiasta dei dem nel lanciarsi a peso morto su Draghi. Ieri però il capogruppo alla Camera Fornaro ha chiesto che “la maggioranza che ha sostenuto lealmente Conte prosegua e diventi asse portante del governo Draghi.” Per il momento, la parte più scettica della sigla sembra quella di Sinistra Italiana che fa capo a Nicola Fratoianni. Dalle parti di Si si è registrato negli scorsi mesi qualche timido sussulto politico, come quando è stata rispolverata quasi per caso la proposta di una patrimoniale, ma non sembra che Leu sia intenzionata ad entrare al governo per imprimergli una particolare impronta, suggerendo che il suo appoggio sia una semplice accettazione delle necessità di coalizione.

In questo scenario anche il dibattito tra “governo tecnico” e “governo politico” sembra tutto sommato superficiale e superato dai fatti. Quello che emerge da questa prima settimana di trattative, in cui Draghi è stato incensato dalla maggior parte delle forze politiche e dai media come un salvatore della patria, è un governo molto più incentrato sulla figura del presidente del Consiglio di quelli che lo hanno preceduto nel passato recente. Sia che la squadra alla fine sarà composta da politici membri dei partiti o da tecnici più o meno proclamati imparziali, sembra difficile che qualcuno avrà nel breve o nel medio termine l’autorevolezza e la solidità politica per non sembrare di statura ridotta di fianco a Sua Santità Mario Draghi.

Grazie alla manovra di Renzi e Mattarella, dunque, il paese sta andando incontro a un governo più forte di quello precedente, mentre paradossalmente l’autorità del Parlamento — che pure Draghi si è affrettato a identificare come suo interlocutore principale — sembra offuscata. La domanda, a questo punto, è fino a quando durerà la luna di miele dei partiti con Draghi: entro un anno si inizierà ad entrare in clima da campagna elettorale, e gli interessi divergenti delle varie forze politiche dovranno manifestarsi per forza, su questioni centrali come politiche fiscali e migratorie. O no?

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