Perché dovremmo avere il diritto di aggiustare in proprio i nostri oggetti tecnologici
Facilitare la riparazione dei dispositivi elettronici che impieghiamo quotidianamente è il primo passo da compiere per immaginare una reale transizione verso l’economia circolare: anche l’Unione Europea – finalmente – sembra averlo capito
Facilitare la riparazione dei dispositivi elettronici che impieghiamo quotidianamente è il primo passo da compiere per immaginare una reale transizione verso l’economia circolare: anche l’Unione Europea – finalmente – sembra averlo capito
Il nesso di causalità che lega a doppio filo la proliferazione incontrollata dei cosiddetti RAEE – acronimo di Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche – e l’aggravarsi della crisi climatica è sotto gli occhi di tutti. I dispositivi elettronici che impieghiamo quotidianamente contengono sostanze inquinanti – metalli pesanti, ritardanti di fiamma bromurati e composti alogenati – che, se smaltite in maniera scorretta, possono costituire una potenziale minaccia per l’ambiente, contribuendo a un pericoloso aumento delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
Da questo punto di vista, i dati a nostra disposizione sono poco rassicuranti: la velocità con cui produciamo, consumiamo e, infine, smaltiamo i rifiuti elettronici non è più sostenibile. Secondo le stime dell’ultimo Global E-waste Monitor, la relazione pubblicata annualmente dalle Nazioni Unite allo scopo di monitorare la crescita globale in termini di dispersione di RAEE, nel solo 2019 sono stati generati globalmente 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. È la cifra più alta mai registrata, corrispondente a una media preoccupante di 7,3 kg pro capite; di questi, solo il 17% è stato adeguatamente processato e riciclato. Inoltre, il rapporto sottolinea come, nel quinquennio 2014-2019, la percentuale di RAEE sia aumentata del 21% e ipotizza un worst case scenario per il 2030, quando la cifra globale di scarti elettronici potrebbe attestarsi attorno ai 74 milioni di tonnellate, quasi il doppio rispetto al quantitativo registrato nel 2014: allo stadio attuale i RAEE costituiscono, dunque, il flusso di rifiuti domestici in più rapida crescita al mondo.
Il 77% dei cittadini dell’UE preferirebbe riparare i propri dispositivi piuttosto che sostituirli
Basti pensare che il peso dei rifiuti elettronici generati nel 2019 era superiore a quello di tutti gli esseri umani adulti presenti in Europa, equivalente a 350 navi da crociera delle dimensioni della Queen Mary 2 e sufficiente a tracciare una linea lunga 125 km. L’esponenziale propagazione di rifiuti tecnologici a cui stiamo assistendo è imputabile a svariate cause: tassi di consumo sempre più elevati, mancanza di trasparenza, assenza di controlli, opzioni di riparazione fortemente limitate, indisponibilità di pezzi di ricambio e scelte di design industriale strumentali a favorire un celere rimpiazzo dei dispositivi, frequentemente percepiti come demodé già dopo pochissimi mesi dall’acquisto. Le aziende produttrici sono state accusate da molti anche di ricorrere a strategie inquadrabili nell’ambito della cosiddetta obsolescenza programmata – ossia fondate su una diminuzione pianificata del ciclo di vita dei prodotti, al fine di accelerarne la sostituzione e scongiurare il rischio di una saturazione dell’indotto. Tuttavia, a partire da quest’anno, il quadro potrebbe mutare: lo scorso 25 novembre, il Parlamento Europeo ha adottato – con 395 voti favorevoli, 94 contrari e 207 astensioni – una risoluzione non legislativa indirizzata alla creazione di un “mercato unico più sostenibile,” invitando la Commissione a mettere a punto un sistema di etichettatura obbligatoria che possa fornire informazioni chiare, immediatamente visibili e di facile comprensione per i consumatori. L’obiettivo è quello di rendere le riparazioni più vantaggiose e abituali per tutti attraverso l’introduzione di alcune tutele per gli acquirenti, come l’estensione della garanzia anche alle parti di ricambio e l’allargamento dell’accesso alle informazioni sulla riparazione e manutenzione dei prodotti a tecnici e centri indipendenti.
L’iniziativa è coerente con gli obiettivi fissati dal Circular Economy Action Plan, uno dei punti cardine del Green Deal europeo, il piano d’azione varato dalla Commissione per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5° e raggiungere, entro il 2050, l’ambizioso traguardo della neutralità carbonica. La proposta dei delegati europei ricalca integralmente il contenuto della legge contro l’obsolescenza programmata adottata in Francia, che configura come reato le tecniche poste in essere dalle imprese allo scopo ridurre la durata di funzionamento di un prodotto e aumentarne il tasso di sostituzione. La normativa francese è piuttosto severa, prevedendo, in caso di condanna, pene fino a due anni di reclusione e un’ammenda di 300mila euro, che può aumentare fino al 5% del volume d’affari dell’azienda.
L’estensione di queste garanzie trova riscontro nelle richieste avanzate dai consumatori europei che, negli ultimi anni, non hanno nascosto un certo malcontento per l’invecchiamento precoce cui sono sottoposti i loro dispositivi: secondo un sondaggio realizzato da Eurobarometro, il 77% dei cittadini dell’UE preferirebbe riparare i propri dispositivi piuttosto che sostituirli, mentre il 79% ritiene che dovrebbe vigere l’obbligo pei produttori di semplificare la riparazione dei dispositivi digitali o la sostituzione di singole parti. Ciò significa che più di tre quarti dei cittadini europei vorrebbe poter riparare i prodotti in piena autonomia, ma è scoraggiato a causa dei prezzi di riparazione troppo alti e della penuria di informazioni disponibili circa la durabilità e riparabilità del prodotto che acquista.
Quella del Right to repair è stata una battaglia costruita dal basso, in cui l’attivismo della società civile ha giocato un ruolo cruciale: la consapevolezza della sua urgenza riflette le istanze di gruppi promotori di un’importante attività di divulgazione della cultura della riparazione, del riutilizzo e della condivisione delle competenze, come The Repair Association e la comunità globale di riparatori iFixit, che ha pubblicato manuali di riparazione per ogni prodotto Apple realizzato negli ultimi due decenni, frequentemente utilizzati dagli utenti per aggiustare i loro iPhone e MacBook a costo zero. Il loro esempio ha esercitato un ascendente considerevole anche nel nostro paese, testimoniato dalla nascita di associazioni come Restarters e dalla crescita che ha interessato i Repair Cafè, luoghi di ritrovo appositamente allestiti per consentire di riparare oggetti che altrimenti andrebbero buttati.
Naturalmente, dall’altro lato della barricata, l’umore è agli antipodi: com’è ovvio, le aziende non vedono di buon occhio la prospettiva di semplificare eccessivamente il processo di riparazione dei loro dispositivi, temendo che ciò possa tradursi in un vantaggio per i loro competitor, che avrebbero buon gioco nel porre in essere azioni volte alla violazione dei loro segreti industriali.
Anche se la politica europea ha atteso il 2020 per fornire sostanza alle sollecitazioni avanzate dai movimenti per il diritto alla riparazione, il tema dell’obsolescenza programmata ha cominciato a occupare un posto di preminenza nell’ambito del dibattito pubblico europeo già a partire dal 2013, quando vennero pubblicati i risultati di uno studio commissionato dal gruppo parlamentare tedesco dei Verdi e redatto da Stefan Schridde, esperto in Business Administration, e Christian Kreiss, docente di Business Management presso l’Università di Aalen. In quell’occasione, i due ricercatori quantificarono i danni economici derivanti dall’invecchiamento precoce degli elettrodomestici in 100 miliardi di euro, dimostrando come, nell’arco di quarant’anni, la loro durata fosse calata a picco: se, fino agli anni Settanta, il ciclo di vita medio di un apparecchio era compreso tra i venti e i trent’anni, nel 2013 la loro durata era già inferiore di dieci volte.
Analisi successive hanno confermato l’intuizione di Schridde e Kreiss: ad esempio, il rapporto Coolproducts (sic) don’t cost the Earth, pubblicato dallo European Environmental Bureau (EEB) nel 2019, ha stimato l’impatto climatico dei principali prodotti di elettronica domestica in base al loro utilizzo e all’energia consumata per realizzarli, evidenziando come la durata media degli smartphone sia attualmente stimabile in appena tre anni. Non dovesse bastare, secondo uno studio pubblicato dall’Agenzia tedesca per l’ambiente, gli elettrodomestici che richiedono una sostituzione entro cinque anni dall’acquisto sono stati interessati da un aumento di quasi cinque punti percentuali, passando dal 3,5% del 2004 all’8,3% registrato nel 2012. Inoltre, secondo i calcoli dell’EEB, un prolungamento del ciclo di vita degli elettrodomestici di soli dodici mesi comporterebbe vantaggi ambientali non trascurabili per l’Unione Europea, consentendole di ottenere un risparmio in termini di emissioni di CO2 pari a 4 milioni di tonnellate. tanto per rendere conto delle proporzioni, si tratta di una cifra pari a quella prodotta da 2 milioni di automobili. Se la loro durata aumentasse di cinque anni, il risparmio ammonterebbe addirittura a 10 milioni di tonnellate.
Incentivare la cultura del riutilizzo è indispensabile per poter immaginare una reale transizione verso la tanto ostentata economia circolare, spesso evocata più come semplice slogan elettorale che come vera e propria esigenza programmatica da perseguire attivamente. Probabilmente facilitare le riparazioni non sarà sufficiente, ma rappresenta il primo passo da compiere per porre un freno allo strapotere delle aziende, reindirizzare le loro politiche industriali in un orizzonte di ecosostenibilità e scongiurare gli effetti più deleteri del climate change.