in copertina, screenshot di alcuni titoli della stampa italiana. In sottofondo, foto via Instagram
I media continuano a parlare della donna uccisa utilizzando la cornice del “deserving migrant”: l’idea per cui il rispetto e la dignità debbano essere “meritati” da chi non è nato in Italia
Agitu Ideo Gudeta, nata in Etiopia e immigrata in Italia per la prima volta a diciotto anni per studiare Sociologia a Trento, era stata spinta a tornare una seconda volta a causa del suo impegno per contrastare il cosiddetto land grabbing, l’appropriazione di terre da parte di multinazionali straniere. Nel 2010 aveva avviato un’attività agricola di un certo successo nella valle dei Mocheni, “La capra felice,” e proprio quest’anno aveva aperto la sua prima “Bottega della Capra Felice” a Trento, guadagnandosi anche la bandiera verde di Legambiente per l’allevamento delle capre Mochene (destinate all’estinzione) su terreni demaniali abbandonati.
In seguito al suo omicidio, avvenuto ieri per mano di un suo dipendente che avrebbe già ammesso la propria colpevolezza, la sua vita è stata trasformata in una parabola “che parla di emigrazione, di accoglienza e integrazione, di valorizzazione del territorio, di amore per la terra e gli animali, di autonomia e libertà femminile, di nuove radici” (queste le parole della ministra per le Politiche agricole, Teresa Bellanova). Gudeta non esemplificava l’integrazione, che non esiste davvero finché abbiamo bisogno di simboli per parlarne, rappresentava piuttosto l’imprenditoria femminile. In Italia, dai media alle istituzioni, tutti continuano a utilizzare il termine integrazione in maniera fuorviante, come sinonimo di assimilazione: una minoranza etnica, nella narrazione nostrana, si integra nel tessuto sociale di arrivo non quando mantiene anche la cultura, identità, lingua di origine — piuttosto, quando non lo fa. C’era però un elemento per cui l’assimilazione di Agitu Ideo Gudeta si era interrotta, cioè il colore della pelle che, quasi inevitabilmente, l’ha declassata a “una sporca n****.”
Eppure nei ricordi di ieri e di oggi, alla donna vengono riconosciuti meriti che non lodano solo il suo percorso professionale, ma elogiano il modello multiculturale italiano, nonostante le denunce dei reiterati episodi di razzismo di cui era stata vittima, e nonostante vivesse e lavorasse in un ambiente ostile. Nel 2018 un vicino di casa l’aveva più volte aggredita, minacciata con insulti razzisti. L’episodio si era concluso con una condanna per lesioni, mentre erano cadute le accuse di stalking aggravate dall’odio razziale. Non è nuovo il fatto che l’aggravante razziale in violenze di questo genere rappresenti poco più di un elemento simbolico: era già successo nel caso dell’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, dove pur potendo comportare un aumento della pena fino a cinque anni, si era concordato un incremento della pena di soli tre mesi. È comprensibile allora capire perché l’allora presidente del Trentino-Alto Adige, Ugo Rossi, avesse auspicato che la violenza di cui era stata vittima l’imprenditrice si potesse ascrivere “più alla sfera della prepotenza e delle patologie ossessive che al razzismo.”
Il razzismo in Italia non esiste, e soprattutto, bisogna ignorare o addirittura negare che esiste, solo in questa prospettiva è possibile creare una narrativa che ci descriva come una società multiculturale tollerante e senza colpe. La strumentalizzazione del multiculturalismo avviene invece a destra in quanto utopia di sinistra: l’Italia è bianca, cattolica e — a tratti — europea, qualunque deviazione da questo modello porta come risultato violenza, che sia il femminicidio di Agitu Ideo Gudeta o l’uccisione di don Roberto Malgesini.
Agitu Ideo Gudeta è un’altra vittima nera simbolo dell’integrazione, un’altra immigrata con una storia di riscatto. Non tutti hanno dovuto subire l’orrore di una morte violenta per essere dipinti in questo modo, alcuni hanno semplicemente dovuto vivere una vita tale — di povertà, privazioni, sacrifici — da potersi guadagnare un’occasione in Europa. Questo è, nella definizione anglofona, il deserving migrant.
Il deserving migrant è il simbolo di un giornalismo che riduce gli immigrati, i migranti, e più in generale le minoranze etniche a due possibilità: sono eroi o minacce, vittime o carnefici, degni del permesso di soggiorno o “che se ne tornino a casa loro.” Un meccanismo simile d’altronde si replica con la cittadinanza, come è accaduto allo “spider–man” francese Mamoudou Gassama, che per essere degno della naturalizzazione si è prima dovuto arrampicare su un palazzo e salvare la vita a un bambino.
L’idea di una persona meritevole di vivere in una nazione occidentale, la deumanizza, rendendola un prodotto che non solo deve essere perfetto, ma anche utile.
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