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Nei mesi più duri della pandemia, il Covid ha scavato un buco nel diritto alla salute: anche i pazienti oncologici hanno dovuto aspettare mesi prima di riuscire a prenotare una visita di routine. In Lombardia non c’è ancora un piano di recupero delle liste di attesa per le visite ambulatoriali e i ricoveri, in Sardegna l’attesa si allunga di 100 giorni 

“Io ho bisogno e non posso aspettare”. Con la sanità lombarda che sta raccogliendo i cocci dello tsunami Covid, Mario non riesce a prenotare una visita nel reparto di urologia, all’ospedale di Varese. Mario è nella stessa situazione di tanti cittadini, lombardi e non, con una patologia cronica che richiede attenzioni mediche e prevenzione. “Una persona mi ha chiamato perché non riusciva a programmare un intervento per un tumore benigno. Un’altra paziente anziana ha la leucemia ed è rimasta tre giorni in pronto soccorso,” racconta a the Submarine Samuele Astuti, consigliere regionale Pd in Lombardia. Astuti è spesso contattato personalmente, in quanto membro della commissione salute. “Ho ricevuto un centinaio di segnalazioni, quasi una al giorno da maggio. Il problema c’è ancora e in questo momento anche gli ospedali privati fanno fatica, perché stanno finendo il loro budget”. 

Come si è arrivati a questa situazione? Da marzo a maggio le visite ambulatoriali e gli interventi chirurgici ritenuti “differibili” in base al Piano nazionale di Governo delle liste d’attesa sono stati rimandati a data da destinarsi. Il risultato è stato un allungamento indefinito delle liste, che non accenna a diminuire. La lunghezza di queste liste era già problematica prima del blocco parziale delle attività ambulatoriali nel periodo acuto della pandemia, ma ora ha raggiunto dimensioni paradossali e intollerabili. Secondo le stime pubblicate da Dataroom del Corriere della Sera a giugno, in Italia sono saltate 12,5 milioni di esami diagnostici, 20,4 milioni di esame del sangue e quasi 14 milioni di visite specialistiche. 

I numeri di telefono dei Cup (Centri unici di prenotazione) ospedalieri rispondono spesso allo stesso modo in tutta Italia: “Se sulla sua ricetta non vede l’indicazione ‘U’ allora non possiamo fare niente per il momento.”

Con l’apertura della cosiddetta “Fase 3,” ai primi di giugno, il ministero della Salute ha infatti pubblicato nuove linee guida per organizzare i piani ospedalieri stravolti dal coronavirus. La lettera U sta per “urgente”, e si riferisce alla classe di priorità della ricetta. Se sulla ricetta c’è la lettera U, la prestazione in questione deve essere erogata entro 72 ore. Le prenotazioni programmabili invece si possono rinviare, ma solo fino a 120 giorni. Nonostante questo limite già molto ampio, però, in molti casi i rinvii si sono protratti per più del consentito e hanno coinvolto anche casi di prestazioni urgenti, come per i pazienti oncologici. 

A Varese, il territorio di riferimento di Astuti, “l’ospedale ha già dato indicazioni ai singoli reparti di riprendere tutta la programmazione interrotta”, spiega il consigliere. Ma la situazione però cambia non solo a seconda delle regioni ma anche da un’azienda sanitaria territoriale all’altra. “L’ASST di Lecco in data 28 luglio lamentava 30.000 prestazioni da recuperare, da sommarsi a un arretrato pre Covid di altre 80.000 prestazioni. La situazione è sostanzialmente analoga in tutta la Lombardia”, riferisce il sindacato Uil. Che evidenzia “l’effettiva gravità dei ritardi nelle visite specialistiche, che si sono acuiti notevolmente a causa del Covid”.

Maria, residente in provincia di Brescia, è stata operata 5 anni fa per un tumore al seno: “Tutti gli anni devo fare mammografia e controllo oncologico. Ai primi di marzo, per via del Covid, la mia visita è stata annullata. Ho lasciato passare un mese e mezzo e poi ho chiamato al Cup. Non si sapeva niente”.

Maria ha cercato di prenotare a scadenza mensile, presso l’ospedale di Gavardo (BS) senza successo: “Anche mia figlia che ha 45 anni ed è una persona a rischio, doveva fare lo stesso controllo. La risposta è stata: “Provi ai primi di settembre”. Dopo l’ennesimo rifiuto, Maria ha provato a chiamare direttamente in reparto, in radiologia — dove è arrivata una sorpresa: “Ho ottenuto l’appuntamento dopo una settimana. Non so spiegarmi il perché di questa disorganizzazione”. A questo interrogativo ha risposto il consigliere Astuti: “Si tratta di oggettiva disorganizzazione. E’ anche il frutto della mancanza di volontà di Regione Lombardia di non distinguere tra ospedali Covid e non Covid”. 

Leggi anche: Quanto ci vuole a prenotare una visita in Lombardia? Dipende da quanto potete pagare.

Qualcuno ha provato a fare qualcosa? L’articolo 29 del decreto “Rilancio” del 14 agosto mette a disposizione delle Regioni risorse aggiuntive, incrementando il livello di finanziamento statale standard per la sanità di circa 478 milioni di euro. L’obiettivo è la riduzione delle liste di attesa e il recupero delle prestazioni diagnostiche e ambulatoriali non erogate durante la fase acuta della pandemia. Questi soldi possono essere spesi dalle Regioni fino al 31 dicembre, ma sono vincolati alla presentazione di un piano di smaltimento delle liste di attesa entro il 14 settembre.  “Per la Lombardia i fondi ammontano a 100 milioni di euro. Saranno poi i medici generali a valutare la priorità delle visite”, spiegano i dirigenti Uil. In Regione Lombardia si è parlato della ripresa delle attività, ma non è stato pubblicato nessun piano attuativo: “Non abbiamo evidenza del monitoraggio della situazione di saturazione dei reparti. Non è stato reso noto il piano attuativo. Questo tipo di monitoraggio si può fare solo a livello regionale. Noi abbiamo anche chiesto l’accesso agli atti. Non abbiamo ancora ricevuto risposta”, riferisce Astuti.

Le lunghe liste d’attesa obbligano molti cittadini a rivolgersi a laboratori e studi medici privati per “saltare la fila” o, nella peggiore delle ipotesi, chiedere all’interno della stessa struttura ospedaliera il “favore” di passare avanti. E sono i più fortunati: chi non può permetterselo, resta fuori, perdendo la speranza di un esame o una visita in tempi brevi. Bisogna ricordare ancora, però, che la lunghezza delle liste di attesa nella sanità pubblica non è un problema nato con la Covid-19, ma un disservizio sistemico. 

Il rapporto 2019 Cittadinanza attiva-Tribunale per i diritti del malato, realizzato su più di 20 mila segnalazioni di pazienti in tutta Italia, parla chiaro: 16 mesi l’attesa media per una mammografia, 12 per una risonanza magnetica, 11 per una tac, quasi un anno per un ecodoppler o un’ecografia. Il 57,4 % delle segnalazioni rivolte al tribunale riguarda proprio le liste d’attesa, con circa 5000 segnalazioni arrivate ai suoi 500 punti di ascolto nel paese. Non che per le altre prestazioni mediche vada meglio: per quanto riguarda gli interventi chirurgici il tempo di attesa per una ricostruzione mammaria può arrivare fino a 22 mesi, 15 per una cataratta, 6 per la rimozione di un tumore alla vescica. Se la recente cancellazione del superticket, la tassa variabile sul ticket sanitario già pagato, consolida l’accessibilità del Servizio sanitario nazionale, le liste d’attesa interminabili colpiscono in modo profondo le fasce più deboli della popolazione. 

“Il quadro che emerge è di grande disuguaglianza e difficoltà. La situazione cambia a seconda dei territori, con Regioni come Toscana e Emilia Romagna che si sono organizzate meglio,” spiega Isabella Mori, componente della direzione nazionale dell’associazione. In Sardegna l’associazione pensionati delle Acli, la Fap, ha denunciato che visite ed esami sull’isola hanno subìto un aumento medio di 100 giorni. A Cagliari tutti i sindacati dei pensionati avevano protestato a luglio contro i ritardi della sanità. Il problema, dunque, non è solo lombardo. 

Le liste d’attesa sono cresciute ovunque, insieme al disagio di non poter accedere agli ospedali per visitare familiari in degenza. In alcuni casi, le difficoltà sono ancora maggiori al sud: “Ad esempio un paziente gravemente malato di Parkison residente in Puglia ma in cura in un ospedale della Basilicata, non riesce ad ottenere la visita nonostante l’impegnativa. A lui è stato consigliato di rivolgersi ai privati”, racconta Mori. Nel febbraio 2019 il governo Conte I aveva avviato un Osservatorio nazionale sulle liste d’attesa, con l’obiettivo di ridurre i tempi e le disuguaglianze territoriali. Nella legge di Bilancio 2019, il governo ha stanziato 350 milioni di euro fino al 2021 per il potenziamento digitale dei Cup regionali. 

Secondo il rapporto Gimbe sulla trasparenza nella gestione regionale dei tempi di attesa, solo 8 regioni e una provincia autonoma dispongono di sistemi avanzati di rendicontazione per il calcolo delle liste di attesa. In particolare, solo i portali web di Emilia Romagna, Toscana e Lazio sono progettati con finalità di trasparenza. Rendono note cioè le performance regionali sui tempi di attesa massimi. Questi portali non permettono di conoscere però le prime disponibilità delle visite. “Le liste d’attesa in Italia sono un problema sistemico. Il coronavirus non ha fatto altro che esasperare una situazione pre esistente. Il rischio è di creare un solco ancora più profondo tra cittadini di serie A e di serie B”, spiega ancora la rappresentante di Cittadinanzattiva.

Proposte per migliorare la situazione? “Alcune banali: incrementare il numero dei medici disponibili per le visite e allungare gli orari”. È difficile però proporre qualcosa di risolutivo quando decenni di tagli hanno colpito il settore della sanità pubblica in tutto il paese, pur in modo diverso nelle varie regioni. Le soluzioni sono visibili e banali ma costose e in controtendenza rispetto alle politiche di risparmio e tagli che hanno contraddistinto l’ultimo ventennio. A pagarne le spese sono le fasce più deboli: già nel 2018 secondo l’Istat quattro milioni di italiani avevano rinunciato a farsi visitare per motivi economici. La pandemia, insomma, ha rivelato gli aspetti più fragili dei sistemi universali più importanti: istruzione e salute. 

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