Perché devi seguire la causa dello sviluppatore di Fortnite contro Apple e Google

Da questa litigata tra aziende multimiliardarie scaturirà un caso di antitrust che potrebbe cambiare completamente come utilizziamo i nostri telefoni

Perché devi seguire la causa dello sviluppatore di Fortnite contro Apple e Google

Da questa litigata tra aziende multimiliardarie scaturirà un caso di antitrust che potrebbe cambiare completamente come utilizziamo i nostri telefoni

Il caso di Fortnite, il videogioco di grande successo prodotto da Epic, e il suo ritiro dalla vendita su App Store e Play Store è una notizia importantissima, che riguarda ben oltre chi si interessa di videogiochi e tecnologia. Anzi, potrebbe essere la crepa che fa scoppiare la diga che finora ha impedito che un’ondata di regolamentazioni e azioni di antitrust che finora la Silicon Valley ha evitato. Nei giorni scorsi potreste averne sentito parlare — anche sulla nostra newsletter — ma l’argomento non sembra aver ricevuto nel complesso l’attenzione dovuta, in particolare sui media generalisti.

Che cosa è successo Fortnite, come molti giochi multiplayer di questi anni, è gratuito da scaricare e giocare, ma offre contenuti a pagamento all’interno del proprio gioco, sotto forma di costumi e personalizzazioni per il proprio personaggio. Si tratta di un modello di provato successo, che fa guadagnare a Epic centinaia di milioni di dollari l’anno. Gli acquisti dentro il gioco si effettuano con una moneta virtuale, che si può comprare con denaro reale. Il gioco è distribuito su App Store e su Play Store, e su tutti i negozi virtuali delle console di questa generazione. Tutte queste piattaforme prevedono però contratti molto stringenti per gli sviluppatori, e come i negozi del mondo reale, chiedono percentuali molto alte per chi vende prodotti sui loro scaffali: il 30% di tutti i guadagni. La settimana scorsa Epic ha pubblicato un aggiornamento che aggirava questa regola su App Store e Play Store e passava uno sconto del 20% agli utenti — ottenendo così quello che in realtà era l’effetto desiderato: il gioco è stato infatti ritirato dalla vendita da Apple e Google. Epic aveva pronte cause contro entrambe le aziende, che ha lanciato nel giro di poche ore. Nel caso di Apple, aveva addirittura pronto un video pubblicitario ad alto budget con cui ha mandato la notizia in trending topic.

Che cosa chiede Epic L’azienda chiede cose diverse nei due casi separati: ad Apple chiede soprattutto la possibilità di installare “app store” di terze parti, non controllati da Apple; il caso contro Google è più complesso, perché se tecnicamente è vero che su Android è possibile installare applicazioni anche fuori dal Play Store, Google rende il processo quanto più possibile macchinoso e preoccupante per gli utenti, in modo da disincentivare l’uso di distribuzioni alternative alla propria. L’accusa avanzata da Epic, in entrambi i casi, è comunque di utilizzare poteri effettivamente monopolistici per controllare il mercato.

Perché la risposta di Apple cambia tutto La decisione di Apple di ritirare il “certificato di sviluppatore” ad Epic è assolutamente nel pieno dei poteri dell’azienda. Sì, Epic ha infranto il contratto che l’azienda ha accettato di firmare per distribuire sull’App Store: ma questa battaglia non si combatterà solo in tribunale — sarà, infatti, molto importante anche quello che penserà l’opinione pubblica. Apple da sempre è considerata un’azienda dalle opinioni forti — anche da i propri fan — ma solo nell’ultimo decennio ha raggiunto dimensioni in cui queste opinioni costituiscono un problema. Per questo, è l’obiettivo ideale di una campagna contro la verticalizzazione della distribuzione digitale: difficilmente arriverà ad un compromesso su quello che considera un proprio diritto — pretendere una fetta corposa dell’intero mercato delle app per iOS — prima di essere costretta da un tribunale o da azioni della politica.

Con l’ulteriore attacco di ieri, Apple conferma di non volersi fermare, nonostante il caso sia finito anche sulle prime pagine dei siti generalisti.

Perché questo caso è diverso In realtà, Apple ha più volte trovato compromessi con altre grandi aziende per la distribuzione sull’App Store. C’è un caso che, specificamente, dimostra che l’azienda non tratta tutti gli sviluppatori allo stesso modo: da qualche mese, infatti, è possibile acquistare film all’interno dell’app di Prime Video anche attraverso il sistema di pagamento di Amazon, senza passare da quello di Apple. Si tratta di un accordo, fuori dal regolamento dell’App Store, che non avrebbe niente di strano: è un accordo tra privati, e Amazon aveva molto da offrire ad Apple — soprattutto una stretta contro i prodotti Apple contraffatti che si trovavano in vendita sul proprio negozio. È evidente che i malumori di Amazon fossero gli stessi di Epic, ma, come capita solitamente tra aziende di queste dimensioni, raramente si arriva a vedere questi strappi “pubblicamente:”  si consumano nelle stanze di potere delle rispettive sedi.

C’è un altro precedente Due mesi fa è stata aperta un’indagine dall’ antitrust presso la Commissione europea in seguito ad una denuncia di Spotify, che accusava Apple sostanzialmente di utilizzare la pressione economica dell’App Store per competere in modo illegale con il proprio servizio di streaming Apple Music. Le due aziende si erano scontrate su un fronte molto simile a quello aperto ora da Epic: le richieste di Spotify erano molte, ma sostanzialmente la principale era di poter integrare nella propria app per iOS la possibilità di abbonarsi a Premium senza dover pagare la quota ad Apple. Quello che rende i casi drasticamente diversi, però, è proprio il ruolo dell’opinione pubblica, e come la pressione di utenti e stampa potrà armare politica — e voci più ragionevoli all’interno dell’azienda — per ottenere cambiamenti. Spotify ha denunciato che Apple non gli permette di rendere il proprio servizio migliore, un argomento che ha relativamente poca presa sul pubblico. Epic invece può dire che Apple ha attivamente tolto qualcosa che le persone non solo conoscevano già, ma amavano — e nel quale molti giocatori hanno investito parecchi propri soldi per personalizzare.

Le difese (deboli) di Apple Sia sul fronte legale che di eventuali operazioni di antitrust, Apple — e Google — cercheranno di allargare la definizione del mercato in cui competono per sfuggire a regolamentazioni. È lo stesso meccanismo retorico con cui Amazon sostiene di non avere un monopolio del commercio online, dichiarando di competere anche con le catene di negozi fisici. Si tratta di una difesa piuttosto debole — innanzitutto perché non è necessario essere monopolisti per subire azioni di antitrust — ma anche perché il potere di queste due aziende è enorme. Durante l’udienza del sottocomitato all’antitrust di qualche settimane fa Tim Cook ha paragonato le condizioni del proprio negozio con quelli di Sony, Microsoft e Nintendo: ma si tratta di un paragone fallace, che ignora le evidenti differenze tra una console che si usa per giocare, letteralmente solo per svago, e gli smartphone — il computer principale nella vita di sempre più persone. È evidente che Apple e Google stiano usando il proprio ruolo di monopolisti per mantenere altissime le proprie quote. Un paragone semplice: entrambe le aziende chiedono per gli acquisti in app il 30% del prezzo al cliente, mentre realtà come Stripe, che offrono un servizio paragonabile su internet, un mercato almeno relativamente più libero, chiedono tra l’1,4  e il 2,9% — letteralmente tra un ventesimo e un decimo — e queste quote possono essere generalmente contrattate a prezzi ancora più bassi.

Bancarotta morale Con la pressione che Apple sta esercitando, è lecito aspettarsi che Epic ceda e Fortnite torni disponibile su iOS e Android senza sistema di pagamento indipendente nei prossimi giorni. La causa, invece, andrà sicuramente avanti — anche perché a quel punto Epic avrà un’ulteriore prova per l’ambito più classico delle accuse di antitrust: i costi irragionevoli di Apple avranno costretto Epic ad alzare i prezzi. Si preconfigura così un caso in cui entrambe le parti si presentano in piena bancarotta morale: Epic lucra sugli acquisti compulsivi di adolescenti e pre–adolescenti, che spesso non hanno nemmeno piena coscienza del valore dei soldi che i loro genitori gli lasciano spendere, e Apple pretende di avere la propria fetta di quella torta. Da anni Apple ormai racconta ai propri azionisti di essersi convertita ad un’azienda che vende “servizi” — come Apple Music, ma anche iCloud, Apple Arcade, eccetera, ma una parte maggioritaria dei propri ricavi come “servizi” sono guadagnati attraverso il 30% ricavato dall’App Store — di cui, a sua volta, gli acquisti in–app nei videogiochi, spesso dettati da meccanismi gacha, da vero e proprio gioco d’azzardo.

Perché è importante Sembra quasi superfluo dirlo, in particolare dopo mesi di lockdown, ma Apple e Google — e Facebook — negli ultimi anni si sono ritagliate posizioni di potere senza precedenti storici per operatori privati nella vita delle persone. Il caso di Epic non è importante perché Epic ha ragione — l’azienda è mossa dal solo intento di guadagnare di più — ma perché per la prima volta questo conflitto si consumerà pubblicamente, e porterà a conseguenze che andranno oltre il singolo caso e vanno verso un’unica direzione.

Cosa fare Senza dubbio, questo caso — per quanto possa apparire lontano dalla vita quotidiana della maggior parte delle persone — fornisce l’ennesimo spunto per pensare un ruolo e una forma diversi che i giganti dell’internet dovrebbero avere nella società rispetto a come li conosciamo oggi. Facebook, Apple, Google, e non solo: molte di queste aziende andrebbero spezzate, anche con soluzioni creative. Una delle nostre proposte preferite, ad esempio, è cedere Android a una fondazione formata dalle aziende che lo usano nei propri prodotti. È evidente che, nel quadro di un’economia capitalista sempre più globalizzata, parti di queste aziende — l’App Store di Apple è un esempio perfetto a riguardo — devono essere costrette ad avere concorrenti sul mercato, oppure devono essere convertite in infrastrutture, gestite da fondazioni, appunto. O da no–profit.

Segui Alessandro su Twitter