in copertina: Parkwood Entertainment/Disney+
Il nuovo visual album di Beyoncé è un’ode alla blackness che guarda più alla diaspora che al continente africano, mentre la cantante incarna un modello di successo lontanissimo dai problemi della comunità a cui vorrebbe rivolgersi
Quando lo scorso anno Beyoncé ha pubblicato The Lion King: The Gift, l’album nato a corredo dell’uscita della versione live action del film Il Re Leone — per il quale lei stessa ha prestato la voce al personaggio di Nala — nessuno immaginava che a distanza di un anno la cantante avrebbe rilasciato anche un visual album ispirato alle vicende di Simba, dal titolo Black is King, disponibile sulla piattaforma Disney+.
The Gift lo scorso anno fu esaltato dalla critica per aver reso mainstream le sonorità afrobeat, mettendo insieme cantanti come Kendrick Lamar, Pharrell, Childish Gambino ma soprattutto Burna Boy, Wiz Kid, Mr Eazy e Shatta Wale. Nonostante molti abbiano sottolineato lo scarso coinvolgimento di artisti dell’Est Africa, il disco ha certamente avuto il pregio di aver reso giustizia a un film che, malgrado la sua ambientazione, aveva di fatto rimosso ogni accenno alla specificità musicale e culturale del continente che andasse oltre il motto “Hakuna Matata.”
In Black is King, diretto dalla stessa Beyoncé in collaborazione con Kwasi Fordjour, l’obiettivo di una maggiore “africanizzazione” dell’opera è diventato ancora più manifesto; così le vicende de Il Re Leone (impersonato da un giovane ragazzo nero) sono solo uno spunto narrativo per dar vita a un’ode alla “blackness.” Come cantavano le Pantere Nere: “Black is Beautiful” e l’artista di Houston sembra aver interiorizzato la lezione confezionando un prodotto che, come già in Lemonade e Homecoming, fosse primariamente una celebrazione dell’orgoglio afro. Tuttavia l’intento di Black is King non si traduce in una mera supremazia dei neri su tutti gli altri — anche se gli unici bianchi nel film sono i maggiordomi di Beyoncé e JayZ — quanto piuttosto in un riposizionamento del significato culturale della parola “nero.”
Bless the body, born celestial. Beautiful in dark matter. Black is the color of my true love’s skin. Coils in hair, catching centuries of prayers spreading through smoke. You are welcome to come home to yourself. Let Black be synonymous with glory.
—Warsan Shire, Black is King
Così anche la Disney, da sempre abbastanza conservativa nelle sue scelte, sembra aver prodotto un’inversione di tendenza. L’investimento verso contenuti più “politicizzati” — a inizio mese è stato anche pubblicato il film tratto dallo spettacolo teatrale Hamilton — fa parte di una strategia in atto che ha il compito di riparare gli errori del passato. L’obiettivo chiaro per Disney è quello di essere più inclusiva al fine di non alienare una fetta consistente di pubblico. Dunque il punto fondamentale, ça va sans dire, sono i soldi e un ritorno d’immagine che, nell’epoca dei quadratini neri su Instagram, coincide necessariamente con un riposizionamento della propria strategia, a favore di una brand identity più impegnata a livello sociale. Poco importa però se proprio i due diamanti del catalogo hanno generato nelle ultime settimane un dibattito sia sulla schiavitù e sulla rappresentazione dei padri fondatori, Hamilton, sia sull’immaginario precoloniale distorto proposto in Black is King.
Infatti, anche su Beyoncé è scesa la scure della cancel culture (o presunta tale) non appena è stato rilasciato il primo trailer del visual album. Molte voci autorevoli hanno trovato le immagini fortemente disturbanti perché sembravano incapaci di rappresentare la pluralità di identità presenti nel continente, riducendo di conseguenza la complessità africana a un mero tribalismo pieno di stereotipi. D’altronde da sempre Hollywood, nelle rare volte in cui ha provato a raccontare l’Africa, è apparsa incapace di rinunciare ai cliché dei magical negroes o alla narrazione di un epico passato regale ed essenzialmente puro — un esempio su tutti è il film Black Panther (2018). Come notano effettivamente Boluwatife Akinro e Joshua Segun-Lean, non basta essere neri per saper raccontare l’Africa in modo coerente con la realtà: “Da tempo viene osservato che i rapporti di forza distorcono le rappresentazioni europee dell’Africa, ma può succedere anche che queste distorsioni appaiano in lavori intellettuali della diaspora contemporanea. (…) Così, pochissimi pensatori neri in America sembrano incapaci di fare i conti con le implicazioni del proprio americanocentrismo in relazione all’Africa.”
Una volta che è stato pubblicato il film, è stato possibile constatare che effettivamente alcuni elementi della “Wakandification” — secondo le parole di Jade Bentil — sono presenti in Black is King. A onor del vero, appare però difficile scindere un immaginario regale da un film il cui testo di riferimento si chiama proprio “Il Re Leone.” Tuttavia, se la presenza di Beyoncé e i contenuti da lei proposti sembrano da un lato smorzare la whiteness del progetto originario (scritto e diretto interamente da americani), dall’altra però non si può non riconoscere che l’intera operazione è diretta ai protagonisti della diaspora piuttosto che a coloro che sono rimasti nel continente africano.
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Il film ci viene presentato come una “lettera d’amore all’Africa” anche se in realtà il glorioso passato serve principalmente come mezzo di empowerment per coloro che sono stati portati via forzatamente e che, oggi, alla perenne ricerca di un’identità stabile in un mondo che sembra sempre più esacerbare il conflitto con i corpi neri, hanno bisogno di una ricongiunzione spirituale con i loro antenati. Non a caso il film è dedicato a Sir Carter, l’unico figlio maschio della cantante, e la dedica assume un valore particolare in questo momento storico.
If you feel insignificant
You better think again
Better wake up because
You’re part of something way bigger
I’ll be the roots, you’ll be the tree
Pass on the fruit that was given to me
Legacy,
We’re part of something way bigger
BIGGER – The Lion King: The Gift
Beyoncé — che alternativamente si presenta come una santa (MOOD 4 EVA) o come una peccatrice (DON’T JEALOUS ME) — su questo punto è bravissima e la riconciliazione con la storia si attua attraverso un pastiche post-moderno di immagini opulente, coreografie spettacolari e look abbaglianti che mescolano sapientemente il sacro e il profano, la Bibbia e il twerking, i preraffaelliti con l’arte kitsch, in una black parade che si appropria e colonizza un immaginario abitualmente “bianco,” (come già era avvenuto con il video di Apeshit).
Chris Rojek, nel suo testo Celebrity, ricorda che non è raro per la nostra società attribuire qualità magiche o religiose alle celebrità e di fatto Beyoncé ne è consapevole e gioca con le proprie performance ad elevare il proprio status, dando vita a una vera e propria mitologia autopoietica. Dunque il suo testo, in quanto star, non si esprime attraverso l’apparente desacralizzazione e normalizzazione della sua persona, tutto il contrario: i costumi — curati da Zerina Acker — e le numerose acconciature esibite non fanno altro che rafforzare l’idea che Beyoncé e il suo corpo siano l’esempio concreto dell’esistenza di un passato leggendario.
In questo contesto l’esibizione dello star power serve come una sorta di parabola evangelica che sia da esempio per il suo pubblico.
Il problema però, come notato dalla studiosa Anelot Prins, è che il successo della cantante è sempre articolato come un traguardo capitalista e iper-individuale che ha forse il potere di motivare e verbalizzare un senso di rivalsa che però sul piano pratico non ha il potere di connettersi efficacemente ai problemi che colpiscono l’Africa e la comunità diasporica. La rapper statunitense Noname ha commentato il visual album su Twitter, scrivendo, “Quanto ci piace l’estetica africana avvolta nel capitalismo, speriamo di ricordare le tante persone nere nel continente, le cui vite sono colpite quotidianamente dall’imperialismo statunitense. Se possiamo valorizzare questo immaginario, spero che riusciremo anche a raccontare le persone che non potranno mai accedervi. La liberazione nera è una lotta globale.”
Black is King è un lavoro enorme, ricco di sotto-testi e significati nascosti, ci vorrà del tempo per analizzarlo in tutti i suoi aspetti, certo è che nonostante le numerose problematicità emerse questo è, come buona parte dei prodotti mediali, un’utile cartina tornasole necessaria anche a capire il nostro rapporto con la celebrità, ricordandoci sempre che la loro popolarità ci racconta sempre qualcosa su di noi e sulla nostra società.
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Francesca Moretti ha un dottorato in Comunicazione Ricerca e Innovazione presso l’Università La Sapienza di Roma. Durante il suo percorso di studi si è occupata principalmente di crowdfunding per il mondo dell’audiovisivo ma anche di cinema e celebrity studies. Scrive per Afroitalian Souls, webzine dedicata alla diaspora africana in Italia.