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Dall’elezione di Carlo Bonomi gli industriali sembrano galvanizzati e, nonostante le molte misure del governo a favore dell’impresa, il loro tono di voce nei giorni scorsi si è fatto sempre più alto

Gli ultimi tre giorni sono stati puntellati da una serie di dichiarazioni — diciamo — infuocate da parte di vertici e figure locali di Confindustria, l’organizzazione rappresentativa degli imprenditori italiani, forse la più potente lobby del paese. È difficile scegliere quale sia più estrema nel contenuto o nei toni. Forse quella di Maurizio Bigazzi, che appena eletto presidente di Confindustria Toscana ha dichiarato che “il governo dovrebbe imporre un contributo di solidarietà del 3-4% ai 4 milioni di dipendenti pubblici che lavorano da casa risparmiando tempo e denaro.” 

Il presidente nazionale, Carlo Bonomi, si è distinto invece per una lettera molto ambiziosa inviata al Messaggero, in cui si rivolge “ai sindacati” chiedendo che il mercato del lavoro cambi radicalmente: “I rinnovi contrattuali che ci attendono,” avanza Bonomi, “non possono essere affrontati col vecchio meccanismo dello scambio tra salario e orario. Nei contratti dobbiamo, tutti insieme, realizzare una vera e propria ridefinizione del lavoro, guardando alle filiere e alle aziende.”

Chi segue le vicende della politica italiana avrà notato che, dall’inizio della pandemia, il tono di Confindustria si è fatto sempre più aggressivo. Sia Bonomi che altri esponenti dell’organizzazione hanno avanzato richieste molto impegnative al governo, tanto da far commentare a Conte, dopo l’ennesima stoccata di Bonomi prima degli Stati generali, che il neoeletto presidente potrebbe avere “una certa ansia da prestazione politica.” In quell’occasione il presidente della lobby aveva dichiarato, tra le altre cose, che “l’Italia sta scegliendo di favorire l’assistenza invece di liberare l’energia del settore privato.”

Fin dalle prime battute della pandemia, Confindustria ha cercato di far valere il proprio diritto di non chiudere le fabbriche: non si può dimenticare il fatto che nella mancata istituzione della zona rossa nella bergamasca abbia forse giocato un ruolo anche Confindustria Bergamo, come traspare dalle parole dal presidente della sezione locale, Bonometti. In seguito, durante il lockdown sono state numerosissime le occasioni in cui l’organizzazione ha avanzato proposte irricevibili, come il pressing senza sosta durante tutto il mese di aprile per riaprire il prima possibile le attività economiche. Dopo il lockdown, la pressione per l’aumento del carico di lavoro sui dipendenti non è diminuita: il presidente di Confindustria Veneto, Enrico Carraro, per esempio, a metà giugno ha definito “un dovere morale” continuare a produrre anche ad agosto.

Confindustria ha però evidentemente alzato il tono solo dopo l’elezione della nuova presidenza dell’organizzazione, quando Confindustria ha espresso il proprio nuovo presidente — Carlo Bonomi, appunto, — per il mandato 2020–2024. La sicurezza con cui Bonomi si è lanciato contro il governo è ben giustificata: è stato eletto all’unanimità, con 818 voti favorevoli e solo una scheda nulla, un risultato che non si vedeva da sette presidenze.

Insomma il mandato di Bonomi è fortissimo, e la sua azione di dura opposizione al governo non è una sorpresa, ma parte fondante del programma “di rottura” con la Confindustria a guida Boccia, che negli ultimi anni aveva stabilito con la politica un rapporto di fiducia reciproca. Al contrario, la posizione riottosa di Bonomi è programmatica. Nella propria prima dichiarazione come presidente designato, lo scorso 16 aprile, diceva che “la classe politica” gli sembrava “molto smarrita,” e che non avesse “idea della strada che deve percorrere questo Paese.” 

Da quel momento, gli attacchi di Bonomi al governo sono stati frequentissimi. Il 6 maggio, in un intervento a Piazzapulita, Bonomi si è lamentato che la politica non stesse ascoltando Confindustria, dicendo che la fase 2 stava andando “male, molto male.” In quell’occasione Bonomi aveva dato una specie di piano programmatico al governo: “Taglio dell’Irap, pagare i debiti della pubblica amministrazione alle imprese private e sbloccare i soldi già finanziati per le opere pubbliche. Se si è fatto il ponte di Genova in 18 mesi, si può anche altro.” 

Il 20 maggio, appena confermato all’unanimità, torna a ribadire di volere “nuove forme contrattuali.” Il 31 maggio arriva a dire che “la politica può fare peggio del virus,” — quel giorno, in Italia, erano morte altre 75 persone di coronavirus, portando l’allora totale a 33.415. Il crescendo è arrivato al proprio apice quindici giorni dopo, quando agli “Stati generali” — che non si capisce ancora bene a cosa siano serviti — è andato in scena un vero e proprio strappo, con la richiesta esplicita al governo di 3,4 miliardi che gli imprenditori italiani avrebbero “pagato impropriamente” per le accise energia. 

Non possiamo dire se il metodo Bonomi stia funzionando o se semplicemente la versione dei fatti che vede il governo contrapposto agli imprenditori sia, in realtà, visionaria. Perché il taglio dell’Irap che Bonomi chiedeva l’ha ricevuto, il Fondo Salva Opere mira a garantire il rapido completamento delle opere pubbliche, e Conte sta cercando di trascinare il Pd verso un “modello Genova” con il decreto Semplificazioni: ovvero, una drastica liberalizzazione delle regole sugli appalti. La pandemia ha colpito molto duramente tutti, e il mondo dell’impresa privata è stato — pur nella sua varietà — tra i più segnati dalla necessaria chiusura generale del paese, ma non si può dire che le richieste degli imprenditori siano rimaste inascoltate. 

Il governo e il parlamento sono così nemici degli imprenditori da essere immediatamente accorsi durante la fase della riapertura per garantire che non ci sarà nessuna responsabilità penale dei datori di lavoro in caso di contagio dei dipendenti, salvo palesi violazioni dei protocolli di sicurezza. 

Ma qual è allora l’obiettivo a lungo termine di Confindustria — oltre a ottenere aiuti economici il più sostanziosi possibile? Un buon indiziosi può rintracciare nella già citata lettera di Bonomi al Messaggero, in cui il presidente indica fin dal titolo come strategica una “ridefinizione” del mercato del lavoro, partendo da una revisione delle forme contrattuali.

Secondo Bonomi, è necessario spostare la contrattazione dal paese dentro le singole imprese, superando la contrattazione nazionale, in modo da venire incontro con più flessibilità alle esigenze delle singole aziende. Questa eventualità sarebbe altamente regressiva: i rapporti di potere all’interno delle imprese oggi sono già decisamente favorevoli ai datori di lavoro, che potrebbero ancora più facilmente imporre la propria volontà ai propri dipendenti, se non fossero più tutelati dal contratto nazionale.

È importante notare l’uso del linguaggio del presidente di Confindustria, e in generale di chiunque abbia voluto ridurre le tutele ai lavoratori per privilegiare le imprese: non si dirà mai che bisogna ridurre i diritti di chi lavora — va semplicemente aumentata la flessibilità; i sindacati non devono smettere di fare opposizione — devono agire di concerto con le imprese per il benessere comune. In questo modo gli imprenditori italiani riprendono la retorica, che abbiamo sentito molto spesso negli ultimi decenni, secondo cui bisognerebbe “superare le contrapposizioni ideologiche” e “riformare” tutto quanto riformabile. Chissà come mai, questo si traduce sempre in uno svantaggio per i lavoratori.

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