Tra statue e Via col vento, il dibattito sul razzismo in Italia sta ignorando i neri italiani

Dopo le manifestazioni delle scorse settimane, l’attenzione si è spostata su questioni che poco hanno a che fare con le persone afrodiscendenti. Perché non si parla più di ius soli e diritto alla cittadinanza?

Tra statue e Via col vento, il dibattito sul razzismo in Italia sta ignorando i neri italiani

in copertina, la manifestazione di Black Lives Matter a Milano, foto di Emanuela Colaci

Dopo le manifestazioni delle scorse settimane, l’attenzione si è spostata su questioni che poco hanno a che fare con le persone afrodiscendenti. Perché non si parla più di ius soli e diritto alla cittadinanza?

Domenica scorsa, avviandomi verso la manifestazione a sostegno del movimento Black Lives Matter a Roma, ho pensato che quello potesse essere finalmente un momento di riconciliazione per tutti noi neri italiani e non. Per la prima volta ho iniziato a credere – nonostante il mio cinismo – che forse effettivamente la morte di George Floyd a Minneapolis, così come l’omicidio di Breonna Taylor a Louisville, stessero effettivamente muovendo le coscienze a livello globale e locale. Ho creduto che forse, per la prima volta dopo tanto tempo, si potesse tornare a parlare di diritto alla cittadinanza e ricordare le morti di Abba Abdul Guiebre, Jerry Maslo, Idy Diene, Soumayla Sacko, Emmanuel Chidi Namdi, Becky Moses, Jennifer Otioto, Gideon Azeke, Mahamadou Toure, Wilson Kofi,Omagbon e Omar Fadera.

Nei giorni precedenti alla manifestazione, infatti, io come molti altri attivisti afroitaliani, siamo stati travolti da un turbine. I miei solitamente tranquilli spazi online sono improvvisamente diventati frenetici: alcuni mi hanno scritto in privato per segnalare episodi di razzismo, mi hanno taggato in molti thread su Twitter, ho ricevuto richieste, domande su libri, film, articoli.

Tutto questo mi ha trovato impreparata ma mi ha anche piacevolmente colpita. Ammetto di aver pensato che finalmente si stessero accorgendo di noi, della nostra comunità così ancora disenfranchised dal contesto nazionale e al contempo così divisa al suo interno, anche per via di problematiche che ci rendono anche tra di noi essenzialmente difformi. È evidente, infatti, che i disagi che provano gli italiani di seconda o terza generazione, più integrati nel tessuto sociale, sono profondamente diversi da quelle di un migrante che, magari sbarcato in Italia da poco, deve non solo pensare alla sua sopravvivenza ma deve anche fronteggiare delle barriere linguistiche e burocratiche.

A un certo punto però ho avuto come la sensazione che quell’onda di attenzioni mi volesse possedere, semplificando e banalizzando il mio essere. È come se tutti mi stessero dicendo: se «L’enfer c’est les autres», come possiamo rendere la tua alterità meno incomprensibile? Come possiamo far diventare il tuo mondo personale meno spaventoso? Come possiamo sedare questa crisi pubblica? Come possiamo, secondo le parole di Toni Morrison, romanticizzare la tua identità così da farla rientrare nel nostro gioco di specchi?

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Arrivata a Piazza del Popolo mi sono guardata un po’ in giro e quello che avevo immaginato come un safe space per me – che per la prima volta in vita mia mi ritrovavo a manifestare per una causa che mi riguardava così da vicino – in realtà aveva dei tratti diversi rispetto a come me li ero immaginati. Non mi sentivo minacciata, semplicemente sentivo un forte senso di straniamento.

C’erano molte ragazze e ragazzi in giro, i cartelloni erano bellissimi, simpatici ed emozionanti, ma c’era qualcosa che non quadrava. Mi sono guardata intorno, ci ho messo un po’ a mettere a fuoco la questione. C’erano molte persone che conosco personalmente o di sfuggita, attivisti, scrittori, attori e tutti faticavamo un po’ a parlare a causa delle mascherine e del distanziamento sociale. Una volta però che mi sono allontanata dalla prime file a colpirmi è stata l’ampia presenza di manifestanti bianchi. Non che ci sia qualcosa di sbagliato, ma la realtà è che questa cosa mi ha colpito intimamente. Mi stavo trovando di nuovo immersa in un white space?

Mi fermo vicino ad alcune adolescenti tutte truccate come Zendaya nella serie tv Euphoria. Erano bellissime e mi metto ad origliare un po’ i loro discorsi: “Che dici, quella è la telecamera di Rai1?”, “guarda che papà non lo sa mica che sono qui!”

Rido un po’ sotto i baffi ma ero contenta che fossero lì con me. Non è in fondo anche questo il segnale che stavamo tutti aspettando?

In realtà no, perché per quanto mi piaccia cullarmi nel ricordo di quella piazza così gremita di gente che manifesta unita contro il razzismo mi sembra che ad una settimana di distanza siamo punto a capo. E io sono più esausta di prima.

Il dibattito mi sembra ormai definitivamente appiattito su questioni via via sempre più futili. Mai come in questo momento sarebbe necessario parlare di integrazione e di ius soli, di tutela contro qualunque forma di nuova schiavitù per i lavoratori migranti, di una modifica al decreto sicurezza così come agli accordi con la Libia. Purtroppo niente di tutto ciò sta avvenendo.

Così mentre nel Black Twitter italiano — ossia quella sottocultura di utenti di Twitter neri che usano il social per concentrarsi su tematiche che interessano la comunità afrodiscendente — impazza il tweet di Tianna Jhonson che dall’Inghilterra scrive: “Every black person in Europe has a horror story about Italy/Italians,” l’attenzione dei media è focalizzata alternativamente sui negozi distrutti dai manifestanti, sulla scelta di HBO di ritirare momentaneamente Via Col Vento dal suo catalogo o sull’opportunità dell’abbattimento delle statue di schiavisti o di celebrati giornalisti che senza vergogna hanno ammesso di aver comprato una moglie minorenne in Africa.

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Tutte polemiche che vengono affrontate, ancora una volta, centrando la prospettiva su un unico punto di vista — quello bianco — allontanando, sia in termini spaziali che temporali, lo spettro di un’analisi matura sull’intolleranza razziale in Italia. 

I consigli su come essere dei buoni alleati, così come le conversazioni sull’importanza delle minoranze nei quadri dirigenziali delle aziende, nello spettacolo, nella moda e nel giornalismo, mi sembra che stiano andando completamente persi sul piano della realtà. L’ultima riprova è il flyer pubblicato da Flai Cgil Fai Cisl Uila Uil per pubblicizzare la manifestazione contro il caporalato, che riporta la scritta “Siamo tutti scimmie” o la copertina de L’Espresso che ha utilizzato, in modo mistificatorio, l’immagine di due ragazzi bianchi con la maglietta “Black Lives Matter” esclusivamente per parlare di precariato nel nostro paese.

Fuori dal contesto macro poi mi sembra che la situazione non sia ancora migliore: quando parlo con amici e conoscenti la maggior parte ha addirittura paura di usare la parola “razzismo” preferendo parlare più genericamente di un problema di “giustizia.” Poi ci sono quelli che mi dicono che no quel film o quell’altro evento non ha un sotto-testo discriminatorio e che si arrogano il diritto di correggermi, svelandomi la ricetta per combattere le discriminazioni, ripetendo insistentemente che siamo tutti uguali, all lives matter!, silenziando la mia esperienza di donna nera.

Così se da un lato ci sono gli onorevoli che — in modo onestamente imbarazzante — si inginocchiano per 8.40 minuti imitando Colin Kaepernick, dall’altro la maggior parte degli italiani si sente libera di ridurre la lotta contro il razzismo sistemico a un simulacro, un rituale privo di qualsivoglia significato, un quadratino nero sui social. Dove sono andate tutte le promesse di ascolto fatte nei giorni scorsi? Probabilmente sono finite in sottofondo, insieme a Mohamed Ben Ali, bracciante morto bruciato a Borgo Mezzanone la cui storia non sta producendo nessun tipo di ragionamento collettivo.

Non voglio pensare che la partecipazione di massa alle manifestazione per il Black Lives Matter siano state solo ed esclusivamente l’ennesimo atto performativo, un numero da circo a favore di Instagram o del telegiornale. Non voglio pensare che sia così, ma ad una settimana di distanza mi sembra che — come era successo qualche anno fa con il movimento MeToo  — si stia scegliendo consapevolmente e colpevolmente di rimanere in superficie.

Ma d’altronde, come dice Igiaba Scego: “Il mito degli italiani brava gente aleggia ancora come uno spettro su una nazione che si autoassolve sempre dai crimini che commette.”

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Francesca Moretti ha un dottorato in Comunicazione Ricerca e Innovazione presso l’Università La Sapienza di Roma. Durante il suo percorso di studi si è occupata principalmente di crowdfunding per il mondo dell’audiovisivo ma anche di cinema e celebrity studies. Scrive per Afroitalian Souls, webzine dedicata alla diaspora africana in Italia.