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in copertina, foto via Twitter

Il movimento Black Lives Matter ha innescato una resa dei conti con i monumenti celebrativi del passato coloniale anche in Europa, tra le polemiche di chi difende un concetto acritico di “Storia”

L’abbattimento della statua dello schiavista Edward Colston, a Bristol, sembra segnare l’inizio di una vera e propria “resa dei conti” con i monumenti celebrativi del passato colonialista europeo: a Oxford, per esempio, migliaia di persone hanno chiesto la rimozione dall’Oriel College della statua di Cecil Rhodes, imprenditore britannico di fine Ottocento e nume tutelare dei suprematisti bianchi di tutto il mondo. Nel 2016, il college aveva rifiutato di rimuovere la statua, definendola un “promemoria della complessità della storia e dell’eredità del colonialismo.”

In diverse altre città, le autorità hanno preferito portarsi avanti e non aspettare che siano i manifestanti a fare il lavoro pesante: a Londra è stata rimossa la statua dello schiavista Robert Milligan, ad Anversa, in Belgio, è stata rimossa la statua del re genocida Leopoldo II, già imbrattata con vernice rossa durante il weekend. Il partito laburista britannico ha annunciato un “censimento” delle statue riconducibili a schiavisti in Inghilterra e Galles.

Si tratta di uno degli effetti della rivoluzione di Black Lives Matter in atto negli Stati Uniti: ieri a Richmond gli attivisti hanno abbattuto e buttato in un lago la statua di Cristoforo Colombo. Nella stessa città dovrebbe essere rimossa a breve la statua del generale confederato Robert E. Lee, anche se un giudice ha temporaneamente bloccato la decisione, annunciata dal governatore dello stato Ralph Northam pochi giorni fa. 

E in Italia? Nel nostro paese il dibattito sul passato coloniale è particolarmente arretrato, e periodicamente riemergono le polemiche a proposito del mantenimento di opere architettoniche o monumenti fascisti. Tre anni fa un editoriale scritto sul New Yorker dalla storica Ruth Ben-Ghiat, che si chiedeva come mai in Italia — a differenza, per esempio, della Germania — fossero ancora presenti così tanti monumenti fascisti, si attirò le critiche di gran parte della stampa italiana. Più di recente, ha scatenato grandi polemiche il gesto eclatante compiuto dalle attiviste di Non Una Di Meno che hanno imbrattato di vernice rosa la statua di Indro Montanelli ai giardini di Porta Venezia, a Milano, nel marzo 2019, per ricordare la bambina che il giornalista aveva costretto al concubinaggio forzato durante la spedizione coloniale in Etiopia degli anni ’30, senza mai pentirsene

Impostare il dibattito soltanto come una dialettica tra abbattimento e conservazione è sbagliato. Negli ultimi anni ci sono stati infatti anche esperimenti convincenti di “risemantizzazione” delle vestigia architettoniche del fascismo. Ne parla Igiaba Scego su Internazionale, ricordando che abbattere i monumenti più esplicitamente celebrativi di un passato violento e predatorio è solo una possibilità: “Oltre a monumenti su cui discutere collettivamente – a Roma l’obelisco con la scritta Dux, a Parma la statua dedicata all’ufficiale ed esploratore Vittorio Bottego, sarebbe importante anche costruire monumenti riparativi,” scrive Scego. “Ovvero dare dignità, anche monumentale e statuaria, a chi ha sofferto. Se i nostalgici della schiavitù a inizio novecento hanno progettato statue razziste, forse, soprattutto ora dopo la morte di George Floyd, anche qui in Italia è arrivata l’ora di costruire monumenti dedicati a schiavi, colonizzati, vittime del fascismo.”

Scego ha ragione: l’Italia ha un disperato bisogno di nuovi monumenti — e una nuova architettura — che rappresenti chi la abita oggi. Potrebbe essere utile prendere esempio dal Regno Unito  e allestire una lista di tutti i monumenti, le statue o le altre forme celebrative di un passato ingombrante sparse per l’Italia — partendo da quelle dedicate ai criminali di guerra riconosciuti come il generale Rodolfo Graziani.

In Italia, infatti, la consapevolezza dei crimini sepolti nel passato coloniale del paese è meno forte rispetto ad altri paesi europei, ed emerge meno facilmente alla superficie del dibattito pubblico.  Anche per questo, nelle cartine delle nostre città si possono trovare facilmente vie apertamente celebrative del colonialismo italiano — dedicate a località e fatti avvenuti in Etiopia, Somalia o Libia, senza che venga nemmeno impostato un dibattito sull’opportunità di dargli un altro nome, più rispettoso per le vittime di occupazioni feroci come quella italiana, fascista e pre-fascista. In alcuni casi, contro questi nomi di vie o piazze sono state lanciate azioni di “guerriglia odonomastica.” 

— Leggi anche: Molte vie di Milano sono ancora dedicate al colonialismo italiano

Riguardo alle azioni degli attivisti di Bristol, lo storico e personaggio televisivo David Olusoga è intervenuto per difendere dalle critiche chi ha abbattuto la statua, sostenendo che sarebbe dovuta essere rimossa da anni. Olusoga ha sottolineato che le statue e i monumenti non hanno niente a che fare con il “preservare la Storia” — una critica che viene puntualmente avanzata per azioni come questa. Le statue riguardano una sfera completamente diversa: “l’adorazione.” Bristol “è una città che è composta al 14% da minoranze, con una statua di qualcuno che non era solo un mercante di schiavi, ma era coinvolto nella Royal African Company, la compagnia commerciale che ha deportato e schiavizzato più persone di qualunque altra organizzazione nella storia del Regno Unito.” 

Olusoga spiega bene l’origine della rabbia di chi in questi giorni sta difendendo acriticamente la presenza di statue che, oltretutto, non hanno particolari pregi artistici o storici. Una statua non è uno strumento che insegna la Storia — piuttosto, veicola un messaggio: “Questa persona ha fatto grandi cose.” L’ostinazione di chi difende la presenza di questi monumenti è radicata nel timore che un movimento composto da chi è stato — ed è — oppresso riesca a rompere il precedente inquadramento storico, influendo su come la Storia viene raccontata.

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