Il Panopticon a Milano. C’è un futuro per il carcere di San Vittore?
A Milano si rinnova ciclicamente il dibattito sull’opportunità di rinnovare o spostare il carcere di San Vittore dal centro. I disagi causati dalla pandemia e le rivolte di marzo riporteranno questo tema al centro dell’attenzione pubblica?
tutte le foto di Daria Signorotto
A Milano si rinnova ciclicamente il dibattito sull’opportunità di rinnovare o spostare il carcere di San Vittore dal centro. I disagi causati dalla pandemia e le rivolte di marzo riporteranno questo tema al centro dell’attenzione pubblica?
Quando nel maggio del 1872 cominciarono i lavori per la costruzione di San Vittore, il primo carcere moderno di Milano, si decise di collocarlo nella zona periferica di Porta Vercellina e di ispirarsi a un modello di architettura carceraria, il Panopticon (ideato da Samuel e Jeremy Bentham per facilitare al massimo la sorveglianza), che avrebbe accelerato la trasformazione del carcere da area di contenimento temporaneo a luogo di espiazione della pena. Nel 1889 terminarono i lavori e i carcerati vennero spostati ai margini della città. Un secolo e mezzo di successiva urbanizzazione ha però trasformato San Vittore da carcere periferico a casa circondariale in pieno centro.
La posizione di San Vittore oggi, e soprattutto il suo valore immobiliare, stridono con la preferenza della classe politica per la delocalizzazione delle carceri ai margini o fuori dai centri urbani. A Milano, gli appelli per ricollocare San Vittore sono una malattia cronica. Esiste ora la concreta possibilità che ne vengano proposti di nuovi: le rivolte nelle carceri scoppiate dopo il DPCM dell’8 marzo 2020 e la polemica legata al rilascio agli arresti domiciliari di un totale di 376 tra condannati o individui in detenzione preventiva per reati di stampo mafioso hanno riportato, per la prima volta da tempo, l’attenzione sul tema del sovraffollamento delle carceri.
Negli ultimi anni sono stati proposti progetti improbabili e maldestri come la Cittadella della Giustizia a Porto di Mare (Letizia Moratti) di cui rimane una scolorita memoria consultabile sul sito del Comune. La giunta Pisapia abortì il progetto, e San Vittore rimase dov’è. Nel 2016 l’allora ministro Orlando (governi Renzi e Gentiloni) propose di smantellare tutte le carceri presenti nei centri urbani per costruirle ex-novo su modelli di architettura carceraria all’avanguardia e l’allora candidato sindaco Beppe Sala si dichiarò favorevole al progetto. A sostegno dello spostamento di San Vittore, si dice che la struttura di viale Papiniano è obsoleta, sovraffollata e insalubre: uno “spazio sospeso” nel pieno centro di Milano. Si tratta di un dibattito che si trascina da anni, che tuttavia non ha posto alcun ostacolo al ricorso sistematico a misure d’emergenza che non si soffermano granché né sulla possibilità effettiva di spostare il carcere, né sul reale impatto che questo avrebbe sulle condizioni di vita dei detenuti. San Vittore è una casa circondariale, ovvero un “carcere di passaggio” in cui la maggior parte dei detenuti non ha ancora una condanna ma è in custodia cautelare. Quando si parla di decentralizzarlo, spesso si dimentica che la posizione di San Vittore è cruciale per garantire la vicinanza con gli studi degli avvocati e con il tribunale. Inoltre, per costruire una nuova struttura i tempi sono biblici. Il carcere di Bollate, per esempio, è stato consegnato nel 2000 mentre i progetti risalgono agli anni ’80. Opera, aperto nel 1987, avrebbe dovuto sostituire San Vittore, ma il drastico aumento della popolazione ristretta verificatosi in quegli anni ha reso impossibile il trasferimento dei detenuti. Il risultato è stato l’aumento del numero di strutture, senza che sia mai avvenuto il tanto sperato passaggio di consegna. “La scusa per chiudere San Vittore è che sia vecchio e fatiscente, ma le carceri costruite ex novo a Milano non sono molto migliori da un punto di vista strutturale. Si tratta di carceri inaugurate tra gli anni ’80 e i 2000, ma hanno già richiesto interventi di messa a norma” osserva Alessandra Naldi, ex Garante dei diritti delle persone private della libertà personale a Milano. Del resto la soluzione al sovraffollamento non può rifarsi esclusivamente alla costruzione di nuove strutture. Come ribadito negli Stati generali dell’esecuzione penale, una serie di studi interdisciplinari sull’esecuzione della pena voluti nel 2015 dal ministro Orlando “se non si riesce a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo […] ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a scorrerie legislative di segno involutivo e carcerocentrico, che torneranno a determinare sovraffollamento nei penitenziari.” Il nodo del sovraffollamento, che così spesso viene agitato dai politici locali quando si ragiona sul futuro di San Vittore (perché non farci un parco o un hotel?), in realtà dipende da un circolo vizioso del nostro quadro normativo. L’unica reale possibilità di ridurlo è diminuire drasticamente il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Nel 2013, la sentenza Torreggiani (Corte Europea di Strasburgo) ha obbligato l’Italia ad affrontare il problema, insistendo sull’inefficacia di un sistema che ingloba nella macchina carceraria persone che non dovrebbero assolutamente averci a che fare. Dopo la sentenza, sono state introdotte importanti misure di natura emergenziale, tra cui il regime a celle aperte con sorveglianza dinamica, ma non si è arrivati a un ripensamento drastico della realtà carceraria in Italia. Viene da chiedersi cosa succederebbe se le pressioni esterne dovessero allentarsi. Per capire quali effetti avrà la pandemia di SARS-CoV-2 sulla situazione carceraria, considerando i problemi strutturali preesistenti, si può fare riferimento al XVI° Rapporto dell’associazione Antigone, che da anni monitora la situazione nei diversi penitenziari italiani.
Intanto, mentre il dibattito pubblico si concentra sull’obsolescenza del Panopticon, passano in secondo piano i problemi specifici di un carcere di passaggio come San Vittore. Per esempio la difficoltà che i carcerati e i loro parenti incontrano nell’accesso ai colloqui (che al momento sono ancora sospesi). I parenti entrano, da un portoncino su viale Papiniano, in una stanza piccola e affollata (con bagni all’esterno) dove passano ore prima di essere ammessi. In pochi metri quadri vengono controllati i pacchi per i detenuti, ci si stringe sulle poche panche presenti e si cerca di tenere buoni i bambini. Cartelli vietano l’uso dei cellulari. Una volta entrati in sala colloqui, per andare in bagno bisogna bussare e sperare che un appuntato passi di lì e apra la porta. I tempi d’attesa a San Vittore sono particolarmente lunghi proprio perché è un carcere di passaggio; ha un elevato turn-over di detenuti e una fitta popolazione di stranieri i cui familiari hanno spesso problemi con i documenti. “[Bisogna] considerare che, in generale, i vincoli imposti sui colloqui quando le indagini sono ancora in corso rendono il processo [della visita] ancora più lento, e a San Vittore questo è il caso della maggior parte dei detenuti” ci spiega Alessandra Naldi. Quando, invece, i detenuti hanno una condanna definitiva – una volta sbrigate le procedure burocratiche e ottenuto il permesso di visita – l’intero processo si svolge un po’ più agevolmente. Un secondo problema è, per i detenuti, la scarsa prospettiva di svolgere attività all’interno del carcere, diretta conseguenza di una permanenza media di massimo tre mesi. Ma se il carcere venisse spostato, è difficile immaginare che lo stesso numero di volontari (principale motore delle attività) riuscirebbe a raggiungere Opera o Bollate con la stessa facilità.
È un problema anche la separazione dei reclusi in diversi regimi di detenzione, che diventano compartimenti stagni, contribuendo a minare la stabilità mentale dei detenuti. Abbiamo parlato con Giorgio (nome di fantasia) che ha trascorso quattro mesi nel raggio “protetti” perché omosessuale. “[Nel mio reparto] c’erano poche cose da fare. Io ho fatto un corso di yoga, e poi c’era arte-terapia. Noi protetti non potevamo andare in giro se non scortati dagli appuntati e non potevamo partecipare alle attività che facevano gli altri. Idem per le ore d’aria, che poi non sono granché, perché le aree all’aperto del nostro raggio sono tutte grigie.” Il racconto di Giorgio trova riscontro nei documenti del 2018 di Antigone, che evidenziano come, mentre in quasi tutte le sezioni le celle sono aperte dalle 8:00 alle 20:00, nel raggio protetti gli orari sono ben diversi: dalle 9:30 alle 10:30 e dalle 13:00 alle 15:30. Un altro tema sollevato da Giorgio, che raramente trova riscontro nel discorso pubblico sulle carceri, è quello della salute mentale dei detenuti: “nel mio reparto tutti seguivano una terapia. La psichiatra veniva due volte a settimana, io la vedevo sempre, perché avevo una diagnosi già da prima. Ma anche agli altri davano farmaci per evitare che diventassero aggressivi, insomma calmanti.” Nel suo saggio La variabile umana Lorenza Ronzano fa notare che “un servizio psichiatrico [dovrebbe] aiutare i pazienti a risolvere problemi alla cui origine concorrono motivazioni ben diverse da quelle personali e patologiche.” Difficile non pensare alla carcerazione come a una di queste motivazioni esogene: la terapia in detenzione cura prevalentemente i problemi che la detenzione stessa fa nascere o acuisce.
Insomma, ogni volta che si parla di spostare San Vittore, le argomentazioni sembrano prendere in considerazione esclusivamente l’età e la tipologia della struttura, quasi fossero la causa del sovraffollamento. Ma rimuovere il carcere dal centro significa in realtà riappropriarsi di uno spazio dall’enorme potenziale economico, cancellandone la memoria storica. Se veramente si vuole risolvere il problema di San Vittore, bisogna soprattutto cambiare il quadro normativo oltre che ristrutturare l’esistente. O, magari, abolire il carcere?