Nessun diritto per i migranti sulla rotta balcanica durante la pandemia
In queste settimane, mentre in Europa si allentano le misure di restrizione, in Bosnia ci sono circa 10 mila rifugiati. In Serbia i migranti ammassati nei campi sono 8700, “chiusi ermeticamente da oltre un mese.” Queste persone, private di ogni diritto, da mesi continuano a subire violenze
anche durante la pandemia, i respingimenti violenti non si fermano. In copertina, foto via No Name Kitchen
In queste settimane, mentre in Europa si allentano le misure di restrizione, in Bosnia ci sono circa 10 mila rifugiati. In Serbia i migranti ammassati nei campi sono 8700, “chiusi ermeticamente da oltre un mese.” Queste persone, private di ogni diritto, da mesi continuano a subire violenze. Ma all’Unione Europea la condizione di queste persone non sembra interessare
Dalla Grecia alla Bosnia le condizioni già precarie dei migranti nel limbo della rotta terrestre negli ultimi tempi sono peggiorate a causa delle misure di quarantena per il coronavirus. Se le condizioni problematiche degli affollatissimi campi sulle isole greche sono noti, meno riflettori ha la situazione in Bosnia e in Serbia, i paesi più vicini al confine croato che rappresentano l’ingresso in Europa per molti rifugiati.
In tutta la regione, da quasi due mesi, ci sono sempre meno volontari sul campo a garantire cibo e sostegno alle persone in movimento. A farne le spese maggiori chi si trova fuori dai campi profughi, per scelta o perché già al completo.
“È una situazione drammatica e noi facciamo fatica ad aiutare,” racconta Silvia Maraone, operatrice di Ipsia, Ong che sostiene i migranti sulla rotta Balcanica a Bihac, cittadina del cantone di Una Sana, nella Bosnia nord-occidentale, non lontano dal confine croato. Silvia lavora nei tre campi ufficiali di Bihac gestiti dall’Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) – Bira, Sedra e Borici –, ma aiuta anche chi si trova negli squat, ex fabbriche o edifici abbandonati in cui i migranti si riparano e nei quali le condizioni igieniche sono inesistenti. Insieme a Silvia a Bihac sono rimaste sei persone, che in queste jungle ne aiutano 1500. “Tutte queste persone fanno fatica ad accedere a cibo e acqua potabile,” spiega Silvia.
La situazione, già problematica per tutti i mesi invernali a causa del freddo e dei respingimenti violenti da parte della polizia croata, è peggiorata quando sono entrate in vigore le misure per prevenire i contagi. La Bosnia ha sancito il lockdown il 14 marzo e i primi interessati dai provvedimenti sono stati proprio i migranti. Nonostante nel paese il numero dei contagiati sia abbastanza basso, mentre scriviamo i casi ufficiali sono poco più di 2 mila e nessuno registrato ancora tra i migranti, questi “da metà marzo non possono né entrare né uscire dai campi,” racconta Silvia. Non poter uscire vuol dire non poter andare al game, il gioco, termine con cui viene chiamato il tentativo di valicare i confini per arrivare in Europa: Italia, Austria e Germania soprattutto.
I migranti, dall’inizio della quarantena, non avendo a disposizione mascherine e guanti, non possono entrare nei supermercati, o nei Western Union per prelevare soldi. “I migranti bloccati nei campi non possono uscire a prendere cibo o medicine. Quelli negli squat sono ugualmente bloccati e non possono entrare nei negozi, né avere l’assistenza nei campi,” spiega la volontaria. Le misure adottate potrebbero sfociare in una crisi umanitaria, proprio per il grande numero di persone fuori dalle sistemazioni ufficiali. Sono 30 mila i rifugiati arrivati in Bosnia-Erzegovina lo scorso anno, circa 10 mila sono ancora nel paese, ma solo 6300 sono ospitati nei centri di accoglienza tra Sarajevo, Mostar, Bihac e Velika Kladuša.
Oltre a Ipsia c’è un’unica associazione che aiuta i migranti fuori dai campi, Sos Bihac, rimasta con una decina di persone. Gli altri volontari, soprattutto stranieri, sono partiti prima della chiusura dei confini. “C’è stato ovviamente un impatto sulla vita associativa. Resiste per ora una rete di donatori tra Italia, Germania, Austria che invia soldi a un gruppo di locali per comprare il necessario per i migranti,” spiega Silvia.
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Anche nei campi ufficiali di Bihac però le condizioni sono precarie, come conferma Bejza Kudiz, volontaria italo-bosniaca: “La situazione è peggiorata perché queste persone sono rinchiuse senza alcun diritto. Fanno file tutto il giorno per mangiare e tante volte manca il cibo per tutti. Oppure, anche se c’è, non viene dato perché alla scadenza del tempo si smette di dare pasti.” A Kladuša va anche peggio: “Miral, il campo ufficiale, è sovraffollato, e ci dicono che non c’è abbastanza cibo anche per chi è dentro” prosegue Silvia. Su tutto il territorio bosniaco, poi, è stato introdotto il divieto assoluto per mezzi pubblici, taxi e privati cittadini di trasportare migranti.
A fine aprile a Lipa, su un altipiano a mezz’ora da Bihac, le autorità bosniache hanno ultimato la costruzione di un campo gestito da Iom e dal Danish Refugee Council (Drc). Potrà ospitare fino a 1500 persone, ed è pensato per i migranti che vivono negli insediamenti informali. Silvia pensa che quello di Lipa alla lunga sostituirà i campi di Miral e Bira, per togliere i migranti dalle città, come la Bosnia vuole fare da tempo. Testimoni raccontano che nel campo, sebbene sia presente internet e i pasti garantiti, non ci sono fognature né acqua corrente e non è possibile mantenere il distanziamento tra le persone. Il campo è già descritto da chi ci vive come la giungla di Vucjack, la tendopoli costruita nel fango sopra un’ex discarica di materiali tossici e chiusa a dicembre. “Alcuni migranti tentano di andare al game ora per non finire nel campo e avere in futuro meno possibilità di passare il confine,” racconta Silvia. Per molti altri questo campo sarà comunque migliore degli squat, almeno fino alla fine della quarantena. “Credo poi che cambierà la rotta e i ragazzi dovranno aprire nuove strade,” racconta la volontaria. “La loro determinazione gli farà trovare un altro modo, perché quello che vogliono è andare in Europa.”
Nelle scorse settimane il ministro della Sicurezza bosniaco Fahrudin Radoncic ha usato parole forti nei confronti dei migranti, sostenendo che il paese non può e non vuole diventare un parcheggio per i profughi diretti in Europa. Radoncic ha affermato che i migranti sono, oltre che un costo che lo Stato non deve sostenere, un pericolo per la sicurezza, soprattutto in questo periodo. Il ministro ha anche fatto sapere che il servizio per gli Affari degli Stranieri ha già iniziato a preparare una lista per la deportazione dei migranti economici.
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Non sono cessati neppure i respingimenti violenti di migranti dalla Croazia alla Bosnia. Solo pochi fortunati riescono a varcare i confini nonostante la pandemia e arrivare in Italia, tra Trieste e Gorizia.
Nonostante la scarsa possibilità di muoversi dei migranti, non passa giorno senza che le associazioni di volontari che se ne occupano non ricevano notizie di ragazzi pestati, derubati e rispediti indietro dalla polizia croata, gran parte dei quali finiscono a Lipa. Il 6 maggio un gruppo di rifugiati, prima di essere respinto vicino a Poljana, non lontano da Velika Kladuša, è stato marchiato con delle croci sulla testa. Sui loro vestiti sono state disegnate con un uno spray arancione, come si fa con il bestiame. Un caso analogo è stato segnalato il 2 maggio a Glinica, a 3 chilometri da Poljana. Il Ministero dell’Interno croato, nonostante le foto che testimoniano la nuova pratica, ha risposto a queste accuse definendole prive di fondamento e attaccando le Ong che avevano dato notizia dell’accaduto.
La pandemia ovviamente favorisce le tensioni anche all’interno dei campi. Nei giorni scorsi un migrante curdo che viveva con la famiglia nel campo di Ušivak, vicino a Sarajevo, è morto in ospedale a seguito di traumi, ma sulla vicenda le versioni sono discordanti. Quella sostenuta da Iom vuole che l’uomo curdo sia stato ferito, o sia caduto, durante una rissa, mentre i suoi compagni sostengono che sia stato picchiato da una guardia di sicurezza privata del campo. Iom ha fatto sapere che sosterrà un’inchiesta trasparente per far luce sull’accaduto.
La situazione non è migliore in Serbia dove le poche associazioni che vi operavano, come la spagnola No Name Kitchen – già più volte osteggiata dalla polizia e da paramilitari nazionalisti – sono rimaste senza personale. “Tutti i volontari di No Name Kitchen sono stati costretti ad andarsene da Sid,” racconta Adalberto Parenti, volontario di NNK espulso con due compagne dal paese a febbraio, dopo un attacco da parte di un gruppo ultranazionalista di Cetnici. “L’escalation coi Cetnici era iniziata prima del coronavirus. Queste forze speciali anti migranti erano state spedite per bruciare tende e obbligare tutti a rimanere nei campi.”
Quando anche la Serbia ha chiuso i confini, il 16 marzo, i volontari stranieri sono rientrati nei loro paesi. Tra loro anche Selene Lovecchio, che racconta: “Noi siamo potuti tornare a casa, le persone sul confine no.” A complicare le cose si è aggiunto anche il fatto che in Serbia non si è mai radicata una rete di locali che desse sostegno ai rifugiati. Per questo motivo in Serbia NNK ha sospeso tutte le proprie attività.
La risposta serba alla pandemia è stata di tipo securitaria e militare: tutti i migranti fuori dai campi sono stati portati all’interno di questi, con il paradossale esito di sovraffollarli. I migranti sono rimasti chiusi in queste strutture per quasi due mesi, con l’esercito ai cancelli e l’impossibilità di uscire. “Vere e proprie prigioni incredibilmente sovraffollate. Pochi servizi igienici e assistenza medica,” continua Adalberto. Nei centri in Serbia sono ospitati circa 8700 migranti e tra loro non si registrano finora contagi da coronavirus. Il commissario locale per i profughi Vladimir Cucic ha rivendicato le misure prese. “I nostri centri sono chiusi ermeticamente da oltre un mese, e nessuno può entrare o uscire. E il fatto che nessuno si è contagiato è la dimostrazione che l’isolamento è la cosa migliore,” ha detto Cucic.
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Il cibo nei campi è però spesso insufficiente e quando i ragazzi cercavano di uscire per recuperare cibo nelle cittadine vicine venivano braccati e riportati indietro, spesso con violenze, e a volte derubati dei soldi. Intorno ai campi ora ci sono decine di militari che li circondano e non permettono a nessuno di uscire. Fonti delle Ong riportano che, anche a Belgrado, la polizia cerca i migranti fermando stranieri sulla base dei loro tratti e del colore della pelle.
Il distanziamento sociale all’interno dei campi è comunque impossibile da mantenere, a causa dell’affollamento. Secondo Selene “questa condizione è una costante di tutti i campi, in Serbia. Nel campo di Principovac, vicino a Sid, che dovrebbe contenere 150 persone, sono in 700. Non distante, ad Adasevci, ce ne sono 2 mila e la capacità è di 450. In tutto il paese ci sono tra le 8 mila e le 9 mila persone, quando i posti sono al massimo 5 mila,” afferma. “Al campo di Obrenovac – continua Selene – ci sono state delle risse. La drammaticità della situazione sta portando i migranti stessi a combattere tra di loro. Il livello di stress è altissimo.”
Il 10 aprile, secondo i racconti di Selene, dopo alcune risse nel campo di Krnjača, vicino a Belgrado, sono intervenute truppe delle forze speciali che hanno lanciato gas lacrimogeni dentro le tende e picchiato tre ragazzi. Foto e video degli ospiti del campo lo testimoniano. “Questa operazione aveva il fine di riempire due pullman di persone e non si sa dove le abbiano portate. Forse in un altro campo per alleggerire la pressione,” sostiene Selene.
La vicenda è confermata anche da Bilal, un ragazzo che si trova nel campo. “Non hanno nessuna ragione per picchiarci ma lo fanno perché durante la quarantena non ci sono Ong e media nel campo a testimoniare quello che succede.” Il motivo? “Penso c’entri il vecchio odio serbo verso i musulmani.” Bilal descrive il campo di Krnjača come una grande prigione dalla quale è impossibile uscire e i cui carcerieri non mostrano rispetto per i detenuti: “Ci guardano come schiavi.” Dopo l’intervento delle forze speciali le forze dell’ordine sono ancora più temute. “Non abbiamo fiducia nella polizia. Sono solo bestie per le nostre anime.” Nei giorni successivi sono stati esplosi colpi d’arma da fuoco in aria per intimidire le persone all’interno.
L’ultimo incidente è accaduto il 6 maggio, quando un militante ventenne di estrema destra, Filip Radovanivić, ha superato con la macchina il filo spinato del campo profughi di Obrenovac e ha urlato insulti razzisti verso i migranti, prima di essere fermato dai militari di guardia. Radovanivić ha postato il video della sua azione su Facebook. Questo gesto è la punta dell’iceberg della crescente insofferenza verso gli stranieri di una parte della società, oltre che della politica, in Serbia. STOP Naseljavanju migranata (Stop all’insediamento di migranti), un gruppo Facebook anti migranti aperto il 25 marzo nel pieno della quarantena, ha già raggiunto 330 mila membri in poche settimane. Il video di Radovanović ha finora ottenuto oltre 287 mila visualizzazioni, centinaia di commenti ed è stato condiviso più di 2.500 volte.
Il presidente serbo Aleksandar Vucić lo scorso 6 maggio ha deciso la fine dello stato di emergenza allentando le misure di contenimento per la popolazione serba, dopo 53 giorni. Per i migranti la quarantena non è finita ma è stata solo alleggerita, e a chi soggiorna nei campi poteva uscire per un tempo limitato e in casi di necessità. Il 16 maggio Vucić ha però richiamato l’esercito, che aveva nel frattempo lasciato il posto alle forze di polizia a presidio dei centri per migranti, per controllare tre campi a Šid. Il presidente serbo ha spiegato questa decisione è stata presa per difendere la popolazione locale dalle molestie e i furti che i migranti avrebbero commesso una volta potuti uscire. “La gente non si sente sicura,” ha detto Vucić. Le prossime elezioni nel paese sono state da poco fissate per il 21 giugno e la gestione dei migranti nel paese sarà uno dei principali terreni di scontro.