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in copertina, grab video Rep Tv

Invece di parlare di test e tracciamento dei contagi, gran parte della stampa nazionale continua a cavalcare la colpevolizzazione dei singoli, diffondendo foto allarmistiche e spesso tendenziose

Moltissime testate di informazione nazionale e locale hanno diffuso foto in cui si vede un gran numero di persone intente a “fare aperitivo” o partecipare alla “movida” sui navigli milanesi, negli ultimi anni meta preferita e un po’ stereotipata di chi vuole divertirsi in città. Gli articoli contengono diverse foto in cui si vedono gruppetti o singole persone aggirarsi sulle alzaie e sulla Darsena — qualcuno addirittura con una birra in mano — e sembrano fatti apposta per scatenare nei commenti sui social network la rabbia di chi è portato a considerarsi un cittadino migliore.

Oltre alle foto circola anche un video che mostra come “intorno alle 19 del 7 maggio, [fossero] numerosi i cittadini in Darsena che non indossavano la mascherina e non rispettavano le misure di distanziamento sociale disposte dal governo.” Lo dice l’Huffpost in un articolo intitolato melodrammaticamente C’è qualcosa di sbagliato a Milano. 

Fin dall’inizio della pandemia gli articoli di questo tipo si sono distinti come un vero e proprio genere giornalistico, corredati da foto e video molto simili tra loro, che hanno contribuito alla diffusione di quello che si può definire un clima di sospetto reciproco tra i cittadini, raggiungendo a volte livelli parossistici come nel caso della guerra ai runner. Spesso, però, è stato fatto notare che queste testimonianze fotografiche e video sono ingannevoli: con un teleobiettivo, infatti, è possibile fare miracoli, facendo sembrare venti persone strette in venti metri di spazio — quando in realtà, magari, sono spalmate su duecento.

Il video e le foto di ieri, da questo punto di vista, non fanno eccezione. Dal tweet sopra si capisce bene quello che chiunque conosca Milano già può intuire: ovvero che quelle foto mostrano una via piuttosto lunga, compressa artificialmente nella testimonianza di Repubblica. Altri video, scattati da altre angolazioni, mostrano alcune persone intorno a un carretto, ma nessun affollamento paragonabile a quanto lasciato intendere dal video del gruppo Gedi. In ogni caso è quantomeno pretestuoso basarsi su dieci secondi di video per spingersi a dire che a Milano “c’è qualcosa di sbagliato.”

Questo approccio nel racconto della pandemia di coronavirus è non solo inutile, ma anche dannoso: aizza i cittadini gli uni contro gli altri, e nasconde dietro il rumore e gli hashtag #noncelafaremomai responsabilità politiche molto pesanti, dietro i ripetuti errori e le scelte discutibili prese dalla politica regionale e nazionale nella gestione della crisi.

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Anche per quanto riguarda la fase 2, appena cominciata, il governo e le autorità locali hanno preferito riversare la responsabilità di un eventuale recrudescenza della pandemia sulla responsabilità individuale. Diversi studi ed esempi di altri paesi, però, hanno mostrato che il modo più efficace per contenere il virus non è prendersela con chi passeggia sui navigli, ma eseguire il maggior numero di tamponi possibile, avendo sempre ben presente il quadro della situazione dei contagi e applicando un tracciamento e un isolamento rigoroso degli infetti. Su tutto questo manca ancora un piano nazionale chiaro e univoco, mentre la famigerata app Immuni, che in teoria doveva essere uno dei pilastri della fase 2 immaginata dal governo, è stata rinviata indefinitamente a “fine maggio.” 

È impossibile non fare un paragone con il “modello” coreano: proprio ieri il ministero della Salute sudcoreano ha dato l’allarme per un possibile nuovo focolaio a Seul, che sarebbe stato causato dalla presenza di una persona infetta in tre club nel quartiere multiculturale di Itaewon. Gli investigatori sanitari del governo hanno già identificato 13 nuovi casi collegati all’uomo infetto, e il viceministro ha chiesto alle persone che sono uscite lo stesso giorno, il sabato scorso, di rimanere in casa e contattare le autorità in caso di sintomi. La situazione è diametralmente opposta a quella italiana: da un lato abbiamo la risposta chirurgica di un governo che chiede “serietà” ai cittadini dimostrando altrettanta precisione, dall’altro generici appelli alla responsabilità individuale senza una strategia complessiva di contenimento.

Il numero di tamponi effettuati in Lombardia è gravemente insufficiente ancora oggi per avere un’idea chiara della situazione della regione; non si conosce il numero esatto né di morti né di malati dall’inizio dell’epidemia, con stime ricavate soprattutto sulla base del maggior numero di decessi rispetto alla media annuale; dati esaustivi sui contagi attuali e passati nelle Rsa sono poco chiari e di difficile accesso. Ognuna di queste lacune meriterebbe molta più indignazione, da parte della stampa e dell’opinione pubblica, rispetto alla foto di qualcuno seduto su un muretto del naviglio dopo due mesi di lockdown.

Per assurdo, proprio la mancanza di pianificazione per la fase 2 rischia di far precipitare di nuovo la città e il paese nella fase 1, con un aumento incontrollato dei contagi. Ma l’impressione è che, se questo succederà, si avrà già il colpevole pronto: dopo i runner, toccherà ai passeggiatori milanesi essere additati come gli untori su cui vengono invocati i manganelli, i droni e i taser delle forze dell’ordine. Basti considerare il video con cui il sindaco Sala ha lanciato “un ultimatum” ai cittadini:

L’aspetto ancora più inquietante di video e articoli come quelli che circolano in queste ore, infatti, è forse il prurito di autoritarismo che emanano da ogni titolo e ogni riga. Da questi pezzi traspare una condanna livorosa alla presunta indisciplinatezza degli italiani, al loro bisogno di essere controllati e bastonati per comportarsi bene e seguire l’autorità per il bene di tutti. Questo pregiudizio è così diffuso e sta venendo ribadito in modo così martellante che sorprende molto constatare come invece, nella “fase 1,” gli italiani siano stati molto rispettosi delle misure di lockdown decise dalle istituzioni, come hanno dimostrato i dati sulla mobilità rilasciati, ad esempio, da Google e Apple.