in copertina, foto via Twitter
Nella fase 2 sarà cruciale la capacità di individuare tempestivamente i nuovi contagi, ma un piano di monitoraggio nazionale non c’è ancora, e non si capisce come si muoveranno le singole regioni
È iniziata la “fase 2,” che oltre alle limitate libertà di movimento introdotte per gli spostamenti privati, significa soprattutto il ritorno sul posto di lavoro di circa 4,4 milioni di lavoratori — di cui oltre un milione in Lombardia. Per la maggior parte, secondo un’indagine della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro, si tratta di lavoratori con più di 50 anni. Per il 74,8% di sesso maschile, per il 79,4% lavoratori dipendenti.
Il 26 aprile la conferenza stampa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte segnava la fine della luna di miele mediatica tra il governo e il paese. La scorsa settimana è stata dominata soprattutto dal dibattito surreale riguardo all’esatta definizione di “congiunto” e “affetto stabile” a dalla nebulosità che l’esecutivo ha tenuto sull’effettiva dimensione dell’apertura, o su dove esattamente passi il confine tra legittima attività motoria e una passeggiata proibita.
Ma anche nelle ultime ore la comunicazione del governo continua a essere completamente impostata sulla responsabilità individuale: “Come mai prima, il futuro del Paese sarà nelle nostre mani. Serviranno ancora di più collaborazione, senso civico e rispetto delle regole da parte di tutti,” ha scritto su Facebook Conte nella serata del 3 maggio. Sulla stessa linea, sabato il commissario Arcuri ha detto: “Penso che abbiamo fatto al meglio per quanto potuto la nostra parte, e da lunedì tocca a voi.” Tocca a voi, insomma, tappare i buchi lasciati dall’organizzazione delle riaperture.
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È molto interessante osservare come nel corso della settimana sia stato trattato dalle principali testate italiane, che in queste settimane sono state molto accondiscendenti con le decisioni e le non decisioni del governo, il caso della Germania. Tutti i titoli a riguardo sono stati dedicati a una supposta ondata di contagi nel paese, che sarebbe stata causata da un’apertura troppo precoce — proprio quello che l’astuto Giuseppe Conte stava facendo di tutto per evitare.
Peccato che, come ha fatto notare il Post, le notizie di un aumento di contagi in Germania non solo non erano solide, ma soprattutto non sembravano essere collegate a una aumentata mobilità dei tedeschi. Il caso ha avuto l’effetto di infondere nuovo terrore nella popolazione, ma ha anche impedito per l’ennesima volta di provare a capire meglio quali sono i fattori che hanno fatto sì che la Germania non venisse colpita quanto l’Italia dal contagio: un sistema sanitario più funzionante e in grado di offrire molti più posti in terapia intensiva, ad esempio, e soprattutto una strategia molto più puntuale nel monitoraggio del contagio attraverso i tamponi e la sanità di base sul territorio.
Se si decide di approfondire questi aspetti, si scopre ad esempio che il paragone tra la Germania e la regione italiana più colpita dal virus — la Lombardia — è a dir poco impietoso. La fase 2 in Lombardia sta partendo completamente al buio: manca infatti un quadro epidemiologico valido di quello che è successo sui territori, negli ospedali o nelle Rsa, dato che tutte le Ats della regione non hanno, o si rifiutano di divulgare, dati fondamentali per elaborare una strategia di risposta all’epidemia — il numero dei decessi negli ospedali e nelle Rsa, il numero degli operatori sanitari contagiati, la quantità di Dpi distribuiti, e così via.
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Secondo quanto fatto notare da Vittorio Agnoletto, medico e conduttore della trasmissione 37 e 2 su Radio Popolare, c’è da augurarsi che la regione Lombardia stia semplicemente mentendo, in quanto l’opzione alternativa è, per quanto sconfortante, ancora peggiore: “Se così fosse se ne dedurrebbe che da parte delle ATS e quindi della Regione Lombardia non esiste alcuna strategia pianificata e basata su evidenze epidemiologiche, oltre che scientifiche, di contrasto al Covid 19. Si procede a tentoni, navigando a vista, affidandosi periodicamente a qualche annuncio ad effetto, a qualche fotografia d’impatto o a qualche inaugurazione a consumo dei media mainstream.”
Nella fase 2 sarà cruciale anche la capacità di individuare tempestivamente i nuovi contagi. Ma un piano di monitoraggio nazionale non c’è, e non è chiaro come si muoveranno le singole regioni. A fine aprile, ad esempio, il governo parlava di 5 milioni di tamponi “per i primi due mesi,” ma non si sa con quali criteri saranno effettuati. In compenso, dovrebbero iniziare oggi i test sierologici su un campione di 150 mila persone definito dall’Inail e dall’Istat: sarà un’indagine utile per stimare la reale diffusione del virus nel nostro paese.
Dire “adesso tocca a noi” come hanno fatto i membri del governo vuol dire ignorare tutti questi problemi per concentrarsi sul nuovo modello di autocerficazione per giustificare gli spostamenti, o puntualizzare tramite una circolare ai prefetti le disposizioni del nuovo Dpcm, fornendo tra le altre cose una nuova definizione del termine “congiunti”: oltre ai parenti, comprende le relazioni connotate “da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti.” E, nel frattempo, ignorare l’elefante nella cristalleria: ammettere che non si è stati in grado di approntare un piano credibile e solido per affrontare la cosiddetta “fase 2.”
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