Senza le donne non ci sarebbe stata Resistenza

Le partigiane hanno dovuto ribellarsi due volte: sia al fascismo, sia al patriarcato. Ma il loro ruolo è stato fondamentale per la Resistenza italiana

Senza le donne non ci sarebbe stata Resistenza

in copertina: Ada Gobetti

Le partigiane hanno dovuto ribellarsi due volte: sia al fascismo, sia al patriarcato. Ma il loro ruolo è stato fondamentale per la Resistenza italiana.

Oggi si festeggia il settantacinquesimo anniversario del 25 Aprile. Una ricorrenza che quest’anno si celebra al chiuso, tra le proprie mura, senza manifestazioni e cortei in piazza. E per questo è più che mai necessario ricordare e raccontare le storie di coloro che hanno partecipato alla Resistenza, ponendo le basi per lo Stato e per la nostra Costituzione.

Quando si pensa ai partigiani, vengono subito in mente i racconti di clandestinità ed eroismo che da Calvino a Fenoglio hanno caratterizzato la narrazione letteraria italiana. Si fanno le somme dei morti e dei superstiti e si annoverano i tanti nomi delle brigate sorte spontaneamente in tutta Italia per desiderio di libertà. Brigate di uomini, eroi determinati, più spesso improvvisati.

Quello che viene quasi sempre ignorato, però, è che non ci sarebbe potuta essere una Resistenza se non ci fossero state le donne. Le staffette che operavano come messaggere e intermediarie, rendendo possibili le comunicazioni, il trasporto delle armi e lo spostamento dei compagni; le civili che, ben prima del biennio 43-45, stampavano e diffondevano volantini di propaganda antifascista; quelle che portavano abiti e viveri ai partigiani. E infine, sebbene in numero inferiore, quelle che, come gli uomini, imbracciavano le armi.

Si stima che furono circa 70.000 le donne iscritte ai GDD, i Gruppi di difesa della donna, la prima organizzazione unitaria della partecipazione femminile alla Resistenza, e furono oltre 55.000 le donne impiegate come combattenti o con funzioni di supporto — ma il dato è probabilmente in difetto. In 19 sono state decorate con la Medaglia d’oro al valore militare, e il teatro di guerra che le ha viste protagoniste è stato l’Italia centro settentrionale.

Quella delle donne è stata definita come Resistenza taciuta, in quanto per lungo tempo oscurata. Benché la presenza femminile nei Gruppi di Azione Partigiana (GAP) e nelle Squadre di Azione Partigiana (SAP) fosse particolarmente alta, le storie di queste donne sono state spesso messe in secondo piano, a favore di una Storia e di una storiografia sempre declinata al maschile.

—Alle 16 saremo in diretta sul profilo Instagram di Chiamando Eva per raccontare le donne della Resistenza

Michela Ponzani, storica e autrice di Guerra alle donne, sostiene che “le donne che decidono di combattere sanno di dover rinunciare al ruolo di vittima in cui in conflitti armati hanno da secoli relegato il genere femminile.” La Resistenza ha effettivamente rappresentato una svolta fondamentale per le donne italiane. Per molte diventare una partigiana significava sovvertire l’ordine costituito: uscire dal ruolo subordinato di moglie e madre, tanto caro alla cultura fascista, per prendere parte attiva alla lotta. E non erano in poche a vedere nella Resistenza una concreta possibilità di cambiamento sociale: si lottava contro l’oppressore, ma anche per un’Italia diversa, in grado di lasciarsi alle spalle usi e costumi di un’epoca passata.

In questo senso, le testimonianze delle donne resistenti e partigiane sono preziose, perché ci mostrano una complessità di pensiero non riscontrabile in quelle degli uomini. Sono donne che non solo si ribellano al Regime, ma decidono di uscire dai ranghi, di conquistare uno spazio che in quell’epoca non era loro consentito. Da questo punto di vista molti sono i dubbi, i sensi di colpa e le incertezze che le tormentano, e alcune finiranno a sostenere di aver perseguito la causa “per i mariti” — quasi a sottolineare come il proprio ruolo di moglie non fosse caduto in secondo piano.

Diverse donne, poi, hanno avuto da subito le idee chiare, assumendo ruoli cruciali nella lotta partigiana. È il caso di Ada Gobetti, che insieme a Bianca Guidetti Serra partecipò alla formazione del Partito d’Azione clandestino. Il libro delle sue memorie della Resistenza, Diario partigiano, si apre con l’immagine di lei intenta a distribuire manifesti per le strade del centro di Torino, il 10 settembre di 1943, quando vede passare, con occhi increduli, una fila di automobili cariche di soldati tedeschi.

Quel giorno dunque, quando vidi passare le automobili tedesche, ebbi improvvisa la sensazione che la vacanza fosse finita

Dopo un primo momento di scoramento e di realizzazione del pericolo, però, la scelta è definitiva: diventerà una partigiana e non si volterà più indietro:

Dalla stanchezza opaca che m’ero sentita attorno, dal vuoto in cui m’era parso di trovarmi, rinascevano le iniziative, le speranze; la volontà di resistenza prendeva forma.

Gli anni della Resistenza videro una serie di problemi logistici, in primis garantire le comunicazioni da un paese all’altro, o tra i vari rifugi delle bande. Moltissime sono state le donne che hanno svolto il ruolo di “staffette”, poiché si riteneva che dessero meno nell’occhio e che potessero circolare più liberamente, distraendo i militari nei posti di blocco.

L’ha raccontato bene Antonella Laghi, partigiana di Forlì: “Nelle mie azioni ho sempre constatato che i tedeschi e i fascisti avevano una buona dose di stupidità. Infatti una volta che avevo addosso un carico di rivoltelle e di medicinali e dovevo attraversare il ponte di Schiavonia, i fascisti ci obbligarono tutti ad attraversare a piedi. Io e la compagna che era con me ci tirammo su le sottane fino alle cosce e i fascisti ci lanciavano gridi “Guarda, le gambe della bionda!” E ci lasciarono passare in bicicletta.”

Nella narrazione tradizionale della Resistenza sembra quasi che le staffette rivestissero un ruolo secondario. Non è così: non solo il lavoro di queste donne è risultato fondamentale per sostenere l’intero sistema di copertura, ma si trattava anche di un compito rischiosissimo. Le staffette trasportavano documenti, armi e spesso anche partigiani uomini riconosciuti dalle guardie — che dunque dovevano in fretta spostarsi in altri rifugi — e lo facevano muovendosi in bicicletta, diventando un facile bersaglio per i colpi di mitragliatrice.

Essere donna, poi, significava essere esposta alle avances dei soldati e, in caso di arresto — ma spesso anche in libertà — subire ogni tipo di molestie. Molte partigiane hanno impiegato anni a trovare il coraggio per raccontare le violenze sessuali subite dai soldati fascisti e nazisti. Come Teresa Mattei — partigiana di famiglia antifascista, che, in seguito, sarà la donna più giovane a far parte dell’Assemblea Costituente —  arrestata a Perugia e ripetutamente violentata dai soldati fascisti nel 1944. Mattei riuscì a salvarsi dalla fucilazione gettandosi dalla finestra della caserma in cui era imprigionata, e trovando riparo in un vicino convento. Per molto tempo non raccontò a nessuno ciò che subì da parte dei soldati in quella breve ma tremenda prigionia.

Per molto tempo, inoltre, le partigiane sono state dipinte come donne “facili,” a causa della vita “promiscua” che conducevano nella clandestinità: sempre a contatto con gli uomini, con cui spesso dividevano anche il letto. Un accusa che, nell’Italia degli anni ‘40, poteva essere molto infamante, ancora più di oggi. Moltissime testimonianze però — sia maschili che femminili — sottolineano come all’interno dei GAP o dei SAP nessuno avrebbe mai osato sfiorare una donna del proprio gruppo: veniva a costituirsi un rapporto di fratellanza, come è normale per chi si trova a condividere il medesimo incerto destino. Così racconta la partigiana Rita Finocchi, ricordando la nottata passata nel rifugio insieme ai ragazzi della sua brigata: “fummo trattenuti da una sparatoria, ma io le posso assicurare nel modo più assoluto, siamo state una notte, eravamo in tre, abbiamo dormito con loro, ma che qualcuno abbia fatto delle avances o cosa, nessuno…non c’hanno detto niente.”

Le donne però incontrarono delle grosse resistenze da parte della compagine maschile, che spesso preferiva relegarle al ruolo di cuoche e alle mansioni domestiche, escludendole dalle azioni di guerra. 

La diffidenza da parte dei partigiani maschi difficilmente scemava, come racconta Ida Camanzi riportando un’accesa discussione coi suoi compagni:

Io feci una grossa critica a una riunione. Dissi così, che a lasciarci fuori noi, si assumevano delle grosse responsabilità e che dopo la guerra avrebbero dovuto rispondere, perché noi eravamo capaci certe cose di farle e cavarcela più bene degli uomini.

Entrare nei GAP voleva anche dire sottoporsi a un regime di vita clandestino, lontano dai propri affetti e familiari. Racconta Carla Capponi, gappista che prese parte all’attentato di via Rasella, medaglia d’oro al valore militare, che le regole erano molto severe: “Non mi era permesso mantenere i contatti con la famiglia e chissà per quanto sarei dovuta restare lontana dai miei senza dar loro notizie.”

Essere una partigiana, ancora una volta, voleva dire andare contro gli schemi imposti dalla società patriarcale, facendosi carico dei destini della comunità in cui si viveva, invece che soltanto delle vite dei propri figli e dei propri familiari. Voleva dire rinunciare al proprio nome e alla proprie origini, dandosi una nuova identità e effettuando uno strappo con il proprio passato.

Le donne partigiane hanno smesso di essere le protettrici del focolare domestico e sono arrivate a imbracciare le armi, simbolo di una estrema trasgressione. Sappiamo che la parziale emancipazione femminile portata dalla Resistenza non si è poi tradotta in un automatico miglioramento della condizione della donna nella società. Dopo la guerra, quei partiti che erano stati promotori della liberazione, non ci misero molto a relegare nuovamente la donna a quel ruolo di protettrice del focolare che aveva così ben tratteggiato il fascismo.

Tuttavia la Resistenza c’è stata, e con essa molte donne hanno acquisito la consapevolezza del proprio valore, del proprio coraggio e della propria autonomia.

Come ha scritto Rossana Rossanda nel libro Le Altre: “C’è una parola francese che non so esattamente rendere in italiano, endurance: è ostinata capacità di tenere, di soffrire, di non lasciarsi morire, di non lasciarsi uccidere, di resistere. Forse endurance è resistenza. Questa parola appartiene alle donne da millenni. Gli uomini vincono o perdono generalmente con grande schiamazzo; le donne resistono spesso in silenzio. Se qualcuno crede che questa sia solo una virtù passiva, provi a chiedere che ne pensassero in quegli anni i fascisti e i tedeschi.”

Le donne della resistenza in cifre:

  • 35.000 donne che operarono come combattenti
  • 20.000 patriote, con funzioni di supporto
  • 70.000 donne iscritte nei GDD
  • 4.653 donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti
  • 2.756 deportate nei lager tedeschi
  • 2.900 donne giustiziate o uccise in combattimento
  • 512 commissarie di guerra
  • 1.700 donne ferite
  • 19 donne medaglia d’oro
  • 17 donne medaglia d’argento

Tutte le testimonianze delle partigiane sono state tratte dal testo di Michela Ponzani Guerra alla donne: Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45), Einaudi, 2012.

La citazione di Ada Gobetti è tratta da Diario partigiano, Einaudi, 2014.

Chiamando Eva è il nostro podcast femminista, curato e condotto da Francesca Motta e Elena D’Alì. Seguilo su Spotify per non perderti neanche una puntata.

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