In un paese in cui il lavoro sessuale è ancora fortemente stigmatizzato, sono le reti di attiviste e i collettivi come Ombre Rosse a offrire supporto a chi non può accedere ad altre forme di assistenza legale.
“Il coronavirus non ha fatto altro che rendere visibili le contraddizioni esistenti. Le sex worker erano in difficoltà anche quando andavano a lavorare,” racconta una delle attiviste del collettivo di sex worker e alleate “Ombre Rosse.” Il collettivo è tra i promotori della campagna di crowdfunding “Covid 19 – Nessuna da sola,” nata per aiutare le sex worker nel pieno dell’emergenza coronavirus. “Trattandosi di lavoratrici a nero non hanno nessun tipo di garanzia o sostegno. Se non lavorano non guadagnano e quindi se nessuno le supporterà non potranno fare altro che tornare in strada a lavorare. Perché morire di Covid è un rischio, ma senza cibo morire di fame è una certezza,” racconta l’attivista. L’obiettivo di Ombre Rosse è la decriminalizzazione del lavoro sessuale e la promozione di un cambiamento culturale per combattere lo stigma che pesa sulle lavoratrici.
La campagna “Nessuna da sola” ha raccolto più di 11 mila euro: “Prevalentemente questi soldi sono per affitto e medicine. Ad esempio per le persone transgender che seguono una terapia ormonale, o per persone sieropositive.” Le richieste di aiuto arrivano da Nord a Sud: “Abbiamo avuto qualcuno che aveva finito il gas e le abbiamo spedito la piastra elettrica,” racconta Pia Covre del Comitato per i diritti civili delle prostitute, che ha fondato nel 1982 a Pordenone insieme a Carla Corso. “Ora la nostra priorità è di convincere le donne a non esporsi al rischio e restare a casa e tirare su dei soldi per le persone più in difficoltà.”
La maggior parte delle ragazze che lavorano in strada sono migranti, circa l’80% secondo le attiviste. Per loro sono chiuse anche le porte di assistenza messe a disposizione da Comuni e istituzioni per attutire l’impatto della pandemia: “Chi è residente nella propria città ha la possibilità di rivolgersi all’assistente sociale. Le uniche che possono accedervi sono le cittadine residenti e alcune delle straniere che vivono qui da un po’ di tempo,” dice Covre.
L’Italia è il paese più interessato dalla tratta di esseri umani, “sia come paese di destinazione sia come paese di transito,” come sottolinea il rapporto GRETA, stilato dalla commissione di esperti anti-tratta del Consiglio d’Europa. La maggior parte delle vittime di tratta sono donne (81%), in maggioranza nigeriane, romene, marocchine, albanesi. Secondo i dati GRETA del 2018 il 90% delle vittime di tratta sono state portate in Italia per essere sfruttate sessualmente: nel 2017 erano il 78%. “Ma non tutto il lavoro sessuale è tratta e non tutta la tratta riguarda il lavoro sessuale. Le ragazze che vengono sfruttate in strada a Napoli per un pompino a 5 euro sono le stesse ragazze che poi si trasferiscono a raccogliere pomodori e arance in Puglia e Calabria,” fa notare il collettivo Ombre Rosse.
In questo periodo le sex worker non possono usufruire degli ammortizzatori sociali, come ad esempio i 600 euro previsti dal decreto “Cura Italia” rivolto ai liberi professionisti.
“Le uniche che possono accedervi forse sono quelle che lavorano online e hanno un fatturato che viene pagato dalla piattaforma. Ma sono davvero le uniche,” precisa Covre. “La grande maggioranza delle sex worker non può garantirsi le tutele. Le assicurazioni valgono quanto quelle di una casalinga. C’è tanta paura per il futuro.” Il Comitato, insieme all’associazione Certi Diritti, ha firmato un appello al governo per aiutare i lavoratori e le lavoratrici del sesso in questo periodo difficile. Il governo però non ne ha nemmeno preso visione, perché la petizione non è stata protocollata. “In assenza di misure dello Stato anche in favore dei lavoratori del sesso, le associazioni di sex worker e le unità di strada non hanno avuto altra soluzione che avviare un crowdfunding per poter acquistare generi di prima necessità per le lavoratrici e i lavoratori in situazione di bisogno,” ha dichiarato Leonardo Monaco, segretario dell’associazione.
Le sex worker in Italia sono marginalizzate da un forte stigma sociale e culturale, che non permette di ridiscutere una legislazione volutamente “grigia” e datata. Migranti, italiane, lavoratrici nel settore del porno o escort: tutte sono sfruttate o lavorano in una zona grigia in cui si punisce il fruitore finale ma si “tutela” la vittima. “L’Italia non ha mai accettato che la prostituzione venga considerata lavoro, sia dal lato cattolico che da quello femminista. Si tratta di posizioni tendenti all’abolizionismo o alla regolamentazione stringente,” sostiene Covre. I provvedimenti di distanziamento sociale in vigore in questi giorni hanno portato alla luce le debolezze sistemiche di questa impostazione.
La legge di riferimento in materia di prostituzione è la legge Merlin del 1958, una pietra miliare per l’epoca. “Da quel momento non siamo più andati avanti. Il lavoro sessuale non è criminalizzato in sé, ma è criminalizzato tutto quello che c’è intorno,” afferma Ombre Rosse. Nel tentativo di tutelare la libertà di scelta della donna si è ottenuto l’effetto contrario: la stigmatizzazione. Dal punto di vista dei principi giuridici la Corte Costituzionale nel 2019 ha escluso la decriminalizzazione, affermando che “prostituirsi non è mai una scelta libera.”
La visione politica italiana della prostituzione è vicina al cosiddetto “modello svedese,” che criminalizza i clienti e vede le donne unicamente come “vittime del sistema.” Spesso questo modello viene indicato come un esempio positivo, ma secondo il rapporto IRCSE 2018 (International Committee on the Rights of Sex Workers in Europe), nei paesi dove è stato adottato, come Francia e Svezia, “chi si prostituisce in strada è più soggetta/o a stigmatizzazione, e il numero dei sex worker non è diminuito. In compenso, secondo la polizia svedese, è aumentato di 3 volte il numero dei centri massaggi ‘Thai’ sospettati di offrire performance sessuali”.
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Più favorevole ai diritti delle e dei sex worker è invece il modello neozelandese, dove la prostituzione diventa un servizio tutelato in termini di diritti e doveri — soprattutto fiscali. Le sex worker sono lavoratrici e hanno diritto ad usufruire delle protezioni accordate ai lavoratori. Secondo IRCSE, in Nuova Zelanda il 90% delle lavoratrici intervistate dopo la depenalizzazione (avvenuta nel 2003) ha riferito che è migliorata la propria condizione di salute, l’accesso ai diritti sociali, insieme alla sicurezza personale. Il 67% ha indicato come più semplice la possibilità di rifiutare i clienti indesiderati.
Per Ombre Rosse, anche in tempo di quarantena “Sex work is work”. Partendo da questa premessa il collettivo vuole “andare al di là degli stereotipi della vittima o della puttana felice. Come ogni battaglia per i diritti del lavoro siamo contro ogni forma di sfruttamento. Non neghiamo l’esistenza della tratta e la combattiamo ma vogliamo che non vengano negate nemmeno le nostre esistenze e la nostra autodeterminazione lavorativa.” Il Comitato per i diritti delle prostitute guarda all’Olanda: “La legge olandese è a favore delle lavoratrici. Ma anche in Nuova Zelanda, che ha la legge considerata come il modello migliore, non è previsto il permesso di lavorare per le donne straniere. In Italia sono l’80%. Se non si riconosce loro il diritto di lavorare non ha senso fare una legge solo per il 20% della popolazione. E ci sono anche gli uomini, ma se ne parla di meno perché il moralismo colpisce soprattutto le cattive ragazze rispetto i cattivi ragazzi.”