I rider continuano a lavorare senza tutele e noi ci preoccupiamo del decoro pubblico

Trascorrono le giornate in strada, guadagnano una miseria e spesso non hanno dispositivi di protezione. Dall’inizio della quarantena i rider consegnano beni di prima necessità, ma qualcuno li dipinge ancora come untori in bicicletta.

I rider continuano a lavorare senza tutele e noi ci preoccupiamo del decoro pubblico

in copertina: Milano, rider al lavoro anche la domenica di Pasqua, in via Sottocorno, davanti al ristorante Da Giacomo, elaborazione di foto via Facebook

Trascorrono le giornate in strada, guadagnano una miseria e il più delle volte non hanno a disposizione mascherine, guanti e gel igienizzanti. Dall’inizio della quarantena i rider si sono occupati della consegna di beni di prima necessità, ma qualcuno li dipinge ancora come untori a spasso in bicicletta. 

A inizio aprile un rider di BiciCouriers è stato preso a pugni nel centro di Milano, a Porta Venezia. Lo stesso giorno, sempre a Milano, un altro rider è stato aggredito mentre faceva una consegna. Solo pochi giorni prima, a Palermo, un fattorino ha subito un’aggressione con tanto di furto dell’incasso giornaliero, mentre a Bari il 12 aprile un ragazzo di 21 anni ha sparato a un rider che stava effettuando una consegna. Nelle ultime settimane sono emersi molti episodi di violenza subiti dai fattorini che consegnano il cibo a domicilio. Ma ai rischi quotidiani provocati dalla condizione lavorativa già molto precaria di queste persone si è aggiunta un’altra problematica legata alla loro incolumità: la mancanza di dispositivi sanitari di protezione individuale.

Nonostante le proteste dei sindacati e il calo degli ordini dovuto alla chiusura dei ristoranti — disposta dal governo con il decreto dell’11 marzo — i rider hanno continuato a circolare per settimane all’interno delle nostre città sprovvisti di mascherine e strumenti di protezione. In molti casi, come hanno riportato Deliverance Milano e Riders Union Roma — due sindacati sociali autonomi e autorganizzati — i rider al lavoro sono stati anche additati come untori. Oppure si sono trovati a pedalare per chilometri inutilmente non sapendo che il negozio dove avrebbero ritirato il cibo era chiuso — l’app che utilizzavano non conteneva informazioni aggiornate sui ristoranti.

L’assenza di norme che regolino il loro lavoro e lo scarso interesse delle società di delivery hanno fatto sì che il dibattito mai esaurito sui diritti dei rider ritornasse attuale. Non si tratta più solo di poter garantire una remunerazione adeguata e condizioni di lavoro non oppressive, ma di riuscire a fornire ai fattorini tutti gli strumenti per poter svolgere il lavoro con dignità e sicurezza in una situazione di emergenza sanitaria.

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Nelle ultime settimane questo punto è diventato cruciale ed è stato sottolineato più volte dai sindacati. La consegna di cibo a domicilio è infatti un’attività essenziale, di primaria necessità. I rider nell’ultimo mese non stanno più consegnando solo pranzi e cene ma intere spese e continuano a lavorare per molte ore al giorno nella completa indifferenza dei loro datori di lavoro e delle istituzioni. Qualche volta si trovano anche a infrangere regole che non sempre possono decidere di rispettare. Il caso dei sei fattorini di Easy Food multati pochi giorni fa a Pisa per “assembramento” è emblematico. Stavano riconsegnando gli scooter al deposito alla fine del turno e sono stati multati dai carabinieri perché troppo vicini l’uno all’altro. Dovranno pagare 400 euro — 280 euro se lo faranno entro trenta giorni. Metà del loro stipendio.

Questa situazione ha fatto sì che l’8 aprile Deliverance Milano pubblicasse su Facebook un lungo post, presentando una lista di dieci richieste alle società di consegna che secondo il sindacato garantirebbero, in questa situazione, una maggiore sicurezza del servizio. Non si tratta di privilegi di categoria ma di garanzie minime, come la fornitura da parte delle società dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale), la sanificazione a spese dell’azienda dei cassoni, l’installazione di igienizzatori fuori dai ristoranti per potersi lavare le mani ad ogni consegna o l’accesso ai servizi sanitari da parte dei fattorini in consegna all’interno dei pubblici esercizi.

Oltre a queste richieste puntuali è importante ricordare come la condizione lavorativa dei rider oggi continui a essere estremamente precaria. O flessibile, dipende dai punti di vista. “Perché non li assumete?” chiedeva Lisa Iotti di Presa Diretta a Matteo Sarzana, Amministratore Delegato di Deliveroo Italia, in un’intervista di un paio di anni fa. “Perché non esiste un contratto che permetterebbe di dare ai rider quella flessibilità che loro ci richiedono,” risponde Sarzana. Iotti però lo incalza, “in realtà tutti quelli con cui ho parlato io mi dicono che la flessibilità è solo dalla vostra parte, che loro non hanno nessuna flessibilità, perché devono essere sempre disponibili, perché se non si prenotano un tot numero di ore non lavorano.”

Questa mancanza di flessibilità dal lato dei rider veniva sottolineata anche in un servizio pubblicato nel 2018 da Repubblica. Una fattorina raccontava che “questa flessibilità non c’è, perché se io non lavoro quando mi dici tu, che è soprattutto nei weekend e la sera, poi la settimana dopo non riesci a prenotarti i turni.” E flessibilità significa spesso lavorare molto e guadagnare poco, come mostrava questo servizio di La7 in cui si ripercorreva la giornata tipo di un rider romano impiegato da Glovo. 8 ore di lavoro: 40 euro (33,05 euro netti). Alla fine del mese 800 euro, lordi.

Recentemente “intervistato” da Marco Montemagno, Sarzana afferma che quello a Deliveroo “è un lavoro che permette di guadagnare di media più di 10 euro l’ora, che rapportato a una settimana normale di lavoro di 40 ore sono quasi 2000 euro al mese, per un lavoro che è forse il più democratico possibile.” Ma è evidente che il concetto di democrazia abbia poco a che fare con il mestiere del rider. Quello dei fattorini che consegnano il cibo a domicilio è un lavoro che non garantisce l’uguaglianza dei lavoratori ma li sprona alla competizione mettendoli implicitamente l’uno contro l’altro, caricando il rider di costi che in un posto di lavoro qualsiasi verrebbero addebitati all’azienda — come il mezzo con cui lavorare o lo smartphone per gestire le consegne. I rider inoltre vengono penalizzati se non si dimostrano disponibili quando lo richiede l’azienda. Questo nonostante, ricordiamo, non siano dei dipendenti dell’azienda. L’uguaglianza tra lavoro flessibile e lavoro democratico quindi non torna.

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A fine marzo il giudice Tommaso Maria Gualano del tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso di un rider di Just Eat che, si legge su Famiglia Cristiana, “aveva fatto ricorso mettendo in mora la società pretendendo l’assegnazione di mascherine, guanti e gel disinfettante, per poter consegnare in sicurezza alimenti e cibi da asporto per conto di esercizi convenzionati della società.” In sostanza il datore di lavoro deve fornire attrezzature “idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie.”

Alcuni giorni prima sempre Famiglia Cristiana aveva pubblicato una lunga inchiesta che approfondiva il tema del lavoro dei rider durante l’epidemia, mettendo in evidenza il calo fisiologico degli ordini ma anche i rischi a cui i fattorini vanno incontro tutti i giorni. E in ogni caso secondo Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano, per un rider che lavora full time i guadagni attuali rimangono in media attorno ai 1200 euro. Ma trattandosi di un lavoro a cottimo la scelta di stare a casa per preservare la propria salute comporta un immediato mancato guadagno. Non si tratta quindi di scegliere il male minore, ma di scegliere un male e tenerselo. O la salute, o il lavoro. E i fattorini non possono nemmeno fare affidamento sugli aiuti da parte dello Stato. Il decreto Cura Italia pubblicato in Gazzetta il 17 marzo scorso prevede per i lavoratori un’indennità di 600 euro, ma questa “è riservata a chi ha una partita Iva o una collaborazione coordinata e continuativa, mentre la maggior parte dei rider per volontà delle piattaforme ha una collaborazione occasionale,” scrive Patrizia Pallara su Rassegna Sindacale. E così i rider continuano a lavorare.

Vista la mancanza di garanzie sanitarie a metà marzo Deliverance Milano aveva chiesto al sindaco di Milano Giuseppe Sala e al governatore della Lombardia Attilio Fontana la sospensione del servizio, che non è mai arrivata. Mentre Sala ha dichiarato il 29 marzo che il comune di Milano avrebbe distribuito le mascherine anche ai rider, l’unica disposizione generica adottata dalla regione è avvenuta con la pubblicazione dell’ordinanza che rendeva obbligatorio l’utilizzo di una mascherina o di un foulard, o di una sciarpa, qualora si fosse usciti di casa. Sarzana sostiene che la sua azienda abbia introdotto un’assicurazione specifica per i rider che lavorano durante l’emergenza coronavirus. Sul sito di Deliveroo Italia troviamo però solo l’intenzione di voler introdurre un’assicurazione, non le informazioni necessarie a sottoscriverla. Leggiamo: “Deliveroo sta creando una polizza assicurativa per tutelarti in caso risultassi positivo al COVID-19. A breve troverai maggiori dettagli su questa pagina.”

L’azienda ha creato anche un fondo per sostenere economicamente i rider che hanno contratto il virus o che sono sottoposti alla quarantena. Il sostegno economico ha una durata massima di 14 giorni, si legge sul sito, e questa è l’unica informazione utile accessibile dall’esterno. Ma è interessante notare come un numero maggiore di righe venga dedicato alle ripercussioni lavorative e legali collegate all’abuso del sostegno — hanno paura che questo strumento venga richiesto da troppi lavoratori, o semplicemente non si fidano di loro? Per quanto riguarda invece il rimborso economico dei DPI, Deliveroo garantisce un rimborso massimo di 25 euro per l’acquisto di mascherine, gel igienizzanti e salviettine.

L’inchiesta pubblicata pochi giorni fa da Altroconsumo evidenzia però che il prezzo di una mascherina FFP2 senza valvola acquistata su internet si aggira tra 1,50 euro — su Amazon, tempo di consegna superiore ai 30 giorni — e 15,90 euro — se acquistata in farmacia. E in ogni caso le mascherine andrebbero sostituite dopo qualche ora. Ad eccezione dei DPI nessuna delle altre richieste dei sindacati sembra sia stata recepita dall’azienda, che per qualsiasi informazione riguardante l’emergenza rimanda a fonti esterne (Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, OMS e Protezione Civile).

Nel frattempo la stampa di destra getta benzina sul fuoco esasperando il rispetto delle norme e scaricando il problema sanitario sui rider. Come capita spesso alcuni giornali confondono la mancanza di diritti essenziali con un problema di rispetto del decoro pubblico. In un recente articolo pubblicato sul Giornale, per esempio, si legge: “Alcuni [la mascherina] ce l’hanno, è vero, ma tra chi ne è in possesso c’è qualcuno che però non la indossa e se la tiene abbassata sul collo. E questo non va affatto bene. Gli scatti in questione sono stati realizzati a Milano, in Foro Bonaparte e, oltre che rappresentare una prova, danno forza alle lamentele dei residenti della zona.” Come se i meno tutelati fossero gli abitanti del centro di Milano e non i fattorini in strada tutto il giorno che lavorano per 5 euro l’ora.

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