Ha senso distinguere tra morti “per” e morti “con” il coronavirus?
Senza conoscere nel dettaglio il quadro clinico dei singoli pazienti, è difficile dirlo. Ma le “patologie pregresse” da sole non bastano a spiegare l’elevata letalità che l’epidemia da Covid-19 sta registrando in Italia.
in copertina, grab via Protezione Civile
Senza conoscere nel dettaglio il quadro clinico dei singoli pazienti, è difficile dirlo. Ma le “patologie pregresse” da sole non bastano a spiegare l’elevata letalità che l’epidemia da Covid-19 sta registrando in Italia.
Il dato più vistoso tra i numeri dell’epidemia di Covid-19 in Italia è senza dubbio l’elevata letalità, ovvero l’alto numero di morti rispetto ai casi totali registrati. Secondo l’ultimo aggiornamento della Protezione civile (22 marzo), risultano 5476 decessi su 59.138 infezioni: il 9,26%. L’anomalia salta subito all’occhio se si fa un confronto con i dati ufficiali degli altri paesi: in Cina risultano 3261 morti su 81.416 casi, in Germania “solo” 45 su 18.323 (dati OMS aggiornati al 20 marzo), con una letalità rispettivamente del 4% e dello 0,2%. A livello globale, la letalità risulta al momento del 4,2%, più vicina al dato cinese che a quello tedesco o italiano.
A queste differenze sono state date, nei giorni scorsi, diverse spiegazioni, dalla presenza di un ceppo più aggressivo all’inquinamento, fino alla discrepanza nel modo in cui vengono raccolti i dati tra i vari paesi. Si sente spesso dire, per esempio, che la Germania non calcola tra i morti dovuti alla Covid-19 quelli che avevano un quadro clinico già compromesso. In realtà, questa spiegazione si trova soltanto sulla stampa italiana, non risulta fondata e suona un po’ auto-assolutoria rispetto al numero di decessi così alto in Italia. Una spiegazione più probabile è che la Germania stia effettuando semplicemente un maggior numero di test — 160 mila alla settimana secondo il presidente dell’Istituto Robert Koch — e stia riuscendo quindi a mappare e contenere più efficacemente i contagi nella fase iniziale dell’epidemia. Per questo, l’età mediana dei contagiati è significativamente più bassa rispetto agli altri paesi: 46 anni contro i 63 dell’Italia. Vuol dire che un maggior numero di contagiati giovani è stato individuato e isolato in tempo, mentre in Italia — dato che non c’è ragione di pensare che il virus abbia applicato una diversa “selezione” delle persone da infettare — molti positivi nelle fasce d’età più inferiori sono passati inosservati.
Il denominatore
Che la spiegazione principale dell’anomalia italiana stia nel “denominatore,” ovvero nel numero totale dei casi registrati, è ormai ampiamente riconosciuto. Il responsabile di Malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, ha ripetuto diverse volte, in televisione o sui giornali, che se abbiamo una letalità così alta è perché abbiamo fatto troppi pochi test, e quindi dobbiamo supporre che il numero reale dei contagi sia molto più alto di quello comunicato ogni pomeriggio dal capo della protezione civile Borrelli. Se i contagi sono molti di più, il numero dei decessi rientra in una sua “normalità” rispetto alle percentuali registrate negli altri paesi interessati dall’epidemia. Per dirla con le parole di Francesco Costa, i dati ufficiali sono un’illusione ottica: il problema deriva non solo dal fatto che facciamo complessivamente pochi tamponi, ma che il criterio con cui li facciamo varia significativamente da regione a regione. La situazione è fuori controllo proprio nelle province più colpite, dove, contrariamente alle stesse indicazioni del Ministero della Salute, i tamponi vengono fatti solo su pazienti con gravi sintomi respiratori, spesso soltanto dopo il ricovero ospedaliero, e qualche volta neanche allora. Da alcuni giorni si parla di applicare il “modello sudcoreano,” con test a tappeto e tracciamento sociale per mappare i contagi, ma dal governo non sono ancora arrivate indicazioni precise, mentre alcune regioni — in primis il Veneto — vorrebbero procedere autonomamente.
Purtroppo, ci sono buone ragioni per pensare che non sia soltanto il numero dei contagiati ad essere sottostimato, ma anche quello dei decessi. A sentire i racconti che arrivano dalla provincia di Bergamo — la più colpita del paese — il quadro sembra decisamente peggiore di quello dipinto dai già terribili “numeri ufficiali”: da giorni i sindaci della bergamasca — incluso il sindaco di Bergamo Giorgio Gori — denunciano un numero di morti anomalo rispetto a quello attribuito dall’Ats (l’ex Asl) alla Covid-19. Per esempio, a Dalmine dall’inizio del mese risultano “solo” 2 morti ufficialmente causati dal nuovo coronavirus, ma i decessi sono stati 70, mentre nello stesso periodo di un anno fa erano stati 18. Le stesse anomalie si registrano in gran parte dei comuni della zona, e combaciano con i racconti degli operatori dei servizi di pompe funebri che in questi giorni stanno lavorando praticamente 24 ore su 24 per fare fronte al numero sproporzionato di decessi. Il motivo per cui non vengono inquadrati nelle statistiche ufficiali sul coronavirus è che molti muoiono in casa, o nelle case di riposo, prima che la loro positività al virus possa essere testata.
Le patologie pregresse
Insomma, l’emergenza è stata gestita con una buona dose di impreparazione (nonostante l’anticipo con cui si conoscevano i rischi che avrebbe comportato) e con un tempismo infelice; i risultati peggiori si sono avuti proprio nella regione più ricca e con il sistema sanitario più decantato del paese. È un segreto di Pulcinella, ma si fa ancora fatica ad ammetterlo, perché ammetterlo significherebbe aprire la strada alla ricerca delle responsabilità politiche. Si preferisce quindi trovare altre giustificazioni a una letalità così elevata: la più gettonata è senza dubbio quella delle “patologie pregresse,” su cui hanno insistito molto nei giorni scorsi la Protezione civile e l’Istituto Superiore di Sanità, puntualizzando — subito dopo aver dato cifre record per numero di decessi in 24 ore (793 il 21 marzo, 651 il 22) — sul fatto che nella maggior parte dei casi si trattava di persone anziane e con un quadro clinico già compromesso. Le persone morte senza patologie pregresse sarebbero meno dell’1%, e questo autorizzerebbe a presentare la maggior parte dei decessi con la formula dei morti “con” il coronavirus e non “per” il coronavirus.
L’argomento, però, è un po’ scivoloso. Come ha notato alcuni giorni fa il biologo Enrico Bucci, se guardiamo a un campione di 268 deceduti di cui l’ISS ha reso noto il quadro clinico lo scorso 13 marzo, l’ipertensione arteriosa era la patologia concomitante per il 76,5% di loro. Ma se ammettiamo che questa sia stata la causa primaria della morte, ci troveremmo di fronte a un’enorme deviazione rispetto ai morti dovuti all’ipertensione rilevati dall’Istat, per pari età, nel 2014. “Abbiamo un agente selettivo all’opera,” conclude Bucci, “che aumenta il rischio di morte di certi specifici pazienti, non di tutti. Questo è in profondo disaccordo con l’idea che il virus si trovi di passaggio su quei soggetti, in cui la malattia avrebbe fatto il suo naturale corso. In realtà, è evidente che un agente attivo ne causa il peggioramento selettivo, per cui muoiono molto di più dell’atteso (o prima, il che è lo stesso).”
Oltre all’ipertensione, le altre patologie più comuni rilevate dall’ISS, in base al report aggiornato al 20 marzo, sono: cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, ictus, diabete mellito, demenza, BPCO (Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva), cancro attivo negli ultimi 5 anni, epatopatia cronica, insufficienza renale cronica. Ma nel 96,5% dei casi l’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente osservata nel campione preso in esame, a dimostrazione che non si può trattare il Sars-CoV-2 semplicemente come un elemento “accidentale” nel quadro clinico di persone che “sarebbero morte comunque.”
Secondo il ricercatore dell’ISPI Matteo Villa, che ha potuto analizzare i dati relativi alle 3095 persone positive decedute in Lombardia al 21 marzo, le morti da Covid-19 non sembrano fortemente facilitate dalle patologie pregresse, rispetto alla prevalenza di queste patologie nella popolazione generale. Risulta, per esempio, che fino a 50 anni la metà dei deceduti in Lombardia non aveva neppure una patologia, mentre verso i 70 anni il numero si stabilizza sulle 1,5 patologie. Il che autorizzerebbe a dire che si muore “per” e non semplicemente “con” il coronavirus.
Segui Sebastian su Twitter