in copertina, foto via Twitter
I dati attuali sui controlli degli spostamenti mostrano una percentuale molto bassa di denunciati rispetto alle persone controllate: più che una misura per contenere il contagio, sembra una “militarizzazione strategica.”
In Lombardia (ma non solo) si sta ragionando se, per affrontare la crisi del coronavirus e cercare di limitare il contagio, sia il caso di impiegare l’esercito per pattugliare le strade. “Chiederò formalmente che il programma ‘strade sicure’, quindi anche con l’uso di militari in strada venga esteso a tutta la Lombardia” ha dichiarato Attilio Fontana, il presidente della Regione Lombardia, argomentando che i militari per le strade servono a “dare un elemento di deterrenza.” Ma questa misura serve veramente a qualcosa?
Ieri ci chiedevamo se la criticità maggiore nel tentativo di contenimento del contagio fossero i comportamenti individuali di chi porta il cane a passeggiare o fa una corsa o, invece, il problema strutturale di molti lavoratori impiegati in settori non essenziali che sono ancora costretti ad andare a lavorare (parliamo di almeno 300 mila lavoratori solo nell’area di Milano secondo una stima della Camera del Lavoro), spesso senza le adeguate protezioni.
I dati sui controlli pubblicati dal Viminale, però, riguardano soltanto controlli sugli individui e sugli esercizi commerciali, non fabbriche o altri luoghi di lavoro. Quelli aggiornati al 18 marzo parlavano di 200.514 persone controllate di cui 8.297 denunciate: di tutte le persone controllate, quindi, solo il 4,1% non aveva un buon motivo per essere in giro. Sempre l’altro ieri gli esercizi commerciali controllati sono stati 116.712, da cui sono risultate 195 denunce agli esercenti, ovvero non era conforme alle regole l’1,6% degli esercizi commerciali controllati. Per confrontare questi dati con la tendenza nel corso della scorsa settimana, possiamo osservare che tra l’11 e il 18 marzo le persone controllate sono state 1.226.169 di cui 51.892, il 4,2%, denunciate per “mancato rispetto di un ordine di un’autorità” (ai sensi dell’art. 650 del Codice penale) e solo 1.126 per “dichiarazioni false”, lo 0.09%. Questi dati fanno pensare che la maggior parte delle persone che si muovono abbiano un valido motivo per farlo e che, quindi, non siano strettamente necessari controlli aggiuntivi, tantomeno con l’esercito.
Non che questi dati di per sé vogliano dire molto: il Sars-CoV-2 certo non si chiede se chi deve essere contagiato è fuori casa per un motivo valido o meno. Se le metropolitane sono affollate di lavoratori, con regolare autocertificazione, che sono costretti ad andare a lavorare il contagio non può che continuare a propagarsi. Altra cosa difficile da fare è scindere nettamente i comportamenti individuali da quelli “strutturali” quando si analizzano questi dati. Senza sapere quali sono i motivi del milione e più persone fermate in tutta Italia nel corso della scorsa settimana (ovvero senza sapere cosa c’è scritto nell’autocertificazione delle persone fermate) è difficile trarre conclusioni fondate.
Di tre cose, però, possiamo essere ragionevolmente sicuri: molte fabbriche che producono beni non strettamente necessari sono ancora aperte, molte di queste con tutele nulle o scarse per i lavoratori. La maggior parte delle persone che si muove, si muove per motivi validi. Implementare l’operazione “Strade Sicure” è molto dispendioso, poco efficace e, come anche l’utilizzo dei dati delle compagnie telefoniche per calcolare i metri percorsi, allude a una possibile (se non già in atto) militarizzazione strategica.
Le misure più ragionevoli quindi sarebbero: per prima cosa, chiudere le fabbriche che possono essere chiuse; in seconda battuta, cercare di non sperperare fondi in operazioni di presidio del territorio il cui costo può diventare rapidamente molto alto, e la cui efficacia rischia di essere molto bassa. La scelta di non andare a correre per un paio di settimane, come consiglia Fabio Pagliara, segretario della Federazione Italiana di Atletica, è valida, ma decisamente in fondo alla scala dei valori, e legata più a una questione di “percezione.”
Se impiegare i militari ha una scarsa utilità nel contenere l’epidemia, viene da chiedersi se non si tratti piuttosto di una militarizzazione attuata nel segno della shock doctrine, come la intende la scrittrice e attivista canadese Naomi Klein. Come scrive Marie Solis, che l’ha intervistata su VICE America (qui è disponibile la traduzione), la confusione dei cittadini che non sanno a quali fonti dare ascolto, l’ambiguità e le retromarce dei governi, la paura di un virus di cui è difficile stimare esattamente la pericolosità “sono le condizioni perfette per i governi e le élite mondiali di implementare programmi politici che, se non fossimo così disorientati, sarebbero accolti con fortissime proteste.” Questa strategia è stata definita “shock doctrine” da Klein già nel 2007, riflettendo su come l’amministrazione Bush aveva affrontato le conseguenze socio-economiche interne del 9/11. È un concetto che si presta all’analisi delle strategie governative di reazione all’emergenza, motivo per cui oggi può essere messa in relazione a un altro concetto, quello di “disaster capitalism”: “Il modo in cui definisco il capitalismo dei disastri è veramente netto: è la modalità in cui le industrie private operano per trarre direttamente profitto dalle crisi di larga scala […]. La ‘dottrina dello shock’ è la strategia politica che consiste nell’utilizzare le crisi di larga scala per portare avanti politiche che sistematicamente acuiscono le diseguaglianze, arricchiscono le élite e tagliano dal basso tutti gli altri.”