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in copertina, John Kelly ad un incontro inter-ministeriale ospitato dall’Italia CC Dipartimento di Stato USA

Tra soft power e neo–colonialismo: Italia e Libia hanno appena rinnovato l’accordo sui flussi migratori. La storia dei rapporti tra i due Paesi spiega bene la situazione attuale in Libia.

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TRA COLONIALISMO E NEO-COLONIALISMO

Libia e italia sono legate da una storia ultracentenaria, che parte nel 1911 con il controllo italiano sulla Tripolitania e Cirenaica: la prima avventura coloniale riuscita da parte del nostro paese. Le due ex province ottomane vengono unite poi sotto il nome di Libia nel 1934 — un nome ritirato fuori dal cassetto e imposto dal governo fascista in modo quantomeno arbitrario. L’occupazione italiana è dura, di una durezza poco nota in Italia — come del resto la maggior parte delle vicende coloniali italiane: include una feroce repressione degli oppositori arabi, con esecuzioni sommarie e di massa. È il periodo in cui Benito Mussolini si autoproclama “Protettore dell’Islam” per ingraziarsi la popolazione locale. Durante il periodo coloniale, migliaia di italiani si trasferiscono sul territorio libico, dando vita a una vera e propria comunità italo-libica, che arriva a contare circa 120.000 abitanti nel 1939 — quasi il 13% della popolazione libica totale. Il diretto governo italiano sul territorio però finisce nel 1947, e a esso subentra per un breve periodo il controllo amministrativo di Francia e Inghilterra, fino all’indipendenza dello stato, nel 1951. 

La Libia diventa quindi una monarchia costituzionale, con a capo Re Idris. In questo periodo, la comunità italiana rimane quasi indisturbata sul territorio del paese, fino allo sconvolgimento del colpo di stato del 1969 a opera di Muammar Gheddafi. Iniziano quasi quarant’anni di repressione per gli italo-libici: il colonnello Gheddafi nazionalizza i possedimenti italiani, confisca tutti i loro beni e il loro denaro e, per finire, li espelle definitivamente dal paese. Il governo di Gheddafi è contrassegnato da una forte retorica anti italiana, ribadita durante tutti gli anni del suo potere e portata avanti anche ideologicamente con l’istituzione della Giornata della Vendetta, vera e propria ricorrenza anti-italiana. 

LA SVOLTA AMICHEVOLE
Muammar Gheddafi. Sorprendentemente, questa foto non è tratta da un poliziesco anni Ottanta

Ma, come in tutte le storie migliori, all’improvviso le cose cambiano; e quella che era a tutti gli effetti una sistematica politica di ostilità verso i vecchi padroni si ammorbidisce in un trattato di “amicizia, partenariato e cooperazione.” Una prima bozza di questo trattato, chiamato Comunicato Congiunto Dini-Mountasser, era già stata firmata nel 1998 sotto il governo Prodi. In questo primo comunicato si parlava di azioni dirette dello Stato Italiano, con esborsi di somme da parte dell’Erario per compensare i danni provocati alla Libia durante il periodo del colonialismo: l’accordo, però, non fu mai inviato in parlamento per essere ratificato. È ormai chiaro, però, che i rapporti tra Roma e Tripoli sono in corso di allentamento.

L’intesa viene finalmente raggiunta nell’agosto 2008, con la firma a Bengasi di un trattato che governa e regolamenta in via definitiva i rapporti tra l’Italia e la Libia. I firmatari sono i due presidentissimi dei rispettivi paesi: Berlusconi e Gheddafi. Nell’accordo sono presenti 23 articoli che elencano i doveri politici tra i due stati e una serie di impegni di “amicizia” a lungo termine. Tra le altre cose, si promettono “fondi sociali” e “iniziative speciali” finanziate dall’Italia, visti ai cittadini italiani che erano stati espulsi da Gheddafi, cooperazione scientifica, culturale ed economica. Vari articoli stipulano accordi di pace e disarmi sia a livello interno che internazionale: “Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite.” (Articolo 3) Quello che suona familiare e attuale è l’Articolo 19, che promuove la “lotta all’immigrazione clandestina,” e anticipa i tempi rispetto al Memorandum 2017: “le due Parti promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche.” 

LA GUERRA CIVILE LIBICA
Al Sarraj a colloquio con Jim Mattis, foto CC Brigitte N. Brantley

Il nuovo, roseo scenario  però non dura molto. Nel 2011 la guerra civile in Libia segna però uno sconvolgimento negli scenari dei rapporti internazionali. L’insurrezione contro il governo di Gheddafi risiede in larga parte, nell’onda della primavera araba, dalla politica sempre più oppressiva di quest’ultimo, sfociata in un controllo sistematico dell’informazione, nel peso insostenibile del carovita e in un tasso elevato di disoccupazione. Gli aiuti militari internazionali, sostenuti dalla NATO, causarono la fuga del dittatore, catturato e ucciso a Sirte a meno di un anno dall’inizio degli scontri. 

La guerra non è ancora finita: le divisioni interne — si parla di più di centoquaranta formazioni sociali ed etniche — continuano a essere causa di instabilità. La seconda fase della guerra civile, è iniziata nel 2014 ed è quella che tutt’oggi, vede contrapporsi il comando del generale Haftar e il governo, con base a Tripoli, del Nuovo Congresso Nazionale Generale, ora sotto Fayez al Serraj. Quest’ultimo è stato poi riconosciuto dall’ONU, ma non è ancora riconosciuto dal governo di Tobruk e dal suo esponente. 

L’aumento delle migrazioni verso l’Europa, tra le dirette conseguenze della guerra, è il punto che più preoccupa l’Italia, abituata ai rapporti di “buon vicinato” messi in pratica a seguito del Trattato 2008. el 2012 viene nuovamente sottoscritto un patto bilaterale dalla ministra Anna Maria Cancellieri, con ulteriori precisazioni e appunti sul controllo delle migrazioni e sull’addestramento delle forze di polizia. Il patto prevedeva lo stanziamento da parte dell’Italia di cinque miliardi di dollari in aiuti alla Libia per prevenire e combattere l’immigrazione clandestina, sia dei libici, sia dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Aumentano così gli interventi non governativi ad aiuto di coloro che intendono lasciare il paese e in difesa dei diritti umani. 

IL PATTO MINNITI E IL DECRETO PRESIDENZIALE LIBICO DEL 15 SETTEMBRE 2019

Il patto più recente e controverso, al centro di polemiche anche in questi giorni,iene siglato infine nel 2017 dall’allora ministro dell’interno, Marco Minniti: leggermente modificati nella struttura, gli otto articoli del Memorandum Minniti vertono sugli stessi temi affrontati nel 2008, e sugli stessi obiettivi. Si tratta di un tentativo di controllare le rotte dei migranti e impedire — o limitare — gli sbarchi sul territorio italiano. Per fare ciò l’Italia si sarebbe impegnata a stanziare ingenti somme di denaro per rafforzare la guardia costiera libica e organizzare dei centri di detenzione, chiamati eufemisticamente “centri di accoglienza,” dove trattenere tutti coloro che tentano di lasciare il paese. Questi luoghi diventano col tempo veri e propri campi di concentramento, nei quali le condizioni delle persone detenute sono disumane e precarie. 

Il trattato è in vigore da tre anni: i soldi che l’Italia ha inviato alla Libia, secondo dei calcoli fatti da Oxfam, sono stati circa centocinquanta milioni di euro, a cui vanno sommati i contributi europei. Le conseguenze di queste regolamentazioni sono una vera e propria criminalizzazione delle migrazioni e una legalizzazione degli interventi dei corpi armati contro le organizzazioni umanitarie e non governative. Questi passaggi portano all’ultimo capitolo della vicenda italo-libica, quello del decreto emesso dal consiglio presidenziale libico il 15 settembre 2019, trasmesso all’Italia esattamente due settimane prima che si siglasse nuovamente il Memorandum 2017. 

In poche parole, il decreto, rivolto a tutte le organizzazioni non governative che operano in territorio libico – nei centri di detenzione – e in mare, elenca una serie di limitazioni alla loro azione, contrapposta a nuovi poteri conferiti alla guardia costiera libica. A questa vengono dati legalmente tutti i diritti di interrompere le operazioni umanitarie e di salvataggio — poteri che spesso sfociano in una violenza indiscriminata e ingiustificata verso coloro che provano a lasciare lo stato. L’inchiesta riguardo al trafficante di uomini Bija, ora a capo della guardia costiera, ne è un esempio chiaro e attuale. 

I passaggi storici che legano, da più di cent’anni a questa parte, l’Italia alla Libia sono complessi e a volte contraddittori, ma sicuramente non lasciano dubbi sulle derive che ne conseguono. La guerra civile che devasta da anni la popolazione e le conseguenze migratorie che coinvolgono il nostro paese direttamente sono ancora gestite a livello di decreti leggi firmati e mai ratificati e ingenti somme di denaro trasferite senza eccezioni. Tutto questo succede fra l’Italia e la sua ex colonia africana nel 2019 in quella che si potrebbe definire un’epoca di neo-colonialismo: molto più internazionalizzato e subdolo, ma ugualmente violento.