Il Governo continua a sottolineare l’importanza dell’acciaio e l’esigenza di un Green New Deal, ma non ha nessuna risposta su come si possa continuare a produrre acciaio in modo sostenibile, sia dal punto di vista economico che da quello ambientale.
L’annuncio di ArcelorMittal ieri ha scosso il Governo come se non fosse atteso da quasi due mesi. La rottura dell’accordo è infatti nell’aria dal 6 settembre, quando è stato fermato il ritorno dello scudo penale. Se dalla parte delle opposizioni l’uso del caso è assolutamente giustificato — si tratta di una battaglia fondamentale per il mercato del lavoro italiano — la mancanza di una risposta pronta da parte del Governo lascia francamente un po’ spiazzati.
Che cos’è lo scudo penale, e a cosa serve?
L’odissea dell’Ilva di Taranto inizia nel 2012, quando l’acciaieria viene posta sotto sequestro per gravi violazioni ambientali, che causarono l’arresto dei suoi dirigenti, Emilio e Nicola Riva. Sette anni dopo, il polo dell’acciaio di Taranto racchiude in sé tutti i punti più complessi di cui dovrebbe occuparsi la politica: il diritto al lavoro, quello alla salute, e la sempre più imperante necessità della tutela ambientale. Non è sbagliato dire che si tratti del vero banco di prova della politica italiana per le sfide dei prossimi decenni.
Recuperando le parole della gip di Taranto Patrizia Todisco, di sette anni fa, si dà una dimensione alla crisi a cui ci si trovava di fronte: “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza.” L’impianto causava — e avrebbe continuato a causare — malattia e morte: “La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone.” Per avere un’idea di come venga trattato con superficialità il problema dell’inquinamento nella zona di Taranto basta dare un’occhiata ai dati ufficiali pubblicati da ARPA Puglia che indicano le emissioni nei pressi dell’impianto: ci sono i numeri ma manca l’unità di misura (nella colonna a fianco compaiono delle unità di misura ma non è chiaro se siano abbinati ai valori rilevati). Quei dati, rappresentati in quel modo, di fatto non hanno significato e sono illeggibili.
Dalle dichiarazioni del gip sono passati sette anni, e il tema ambientale è ancora il perno della crisi dell’Ilva — un problema così difficile da gestire che per il Movimento 5 Stelle, ricordiamo, l’unica soluzione era chiudere tutto, in una boutade di nichilismo politico a cui il partito è ancora sospettosamente vicino.
Lo “scudo penale,” tornato alla ribalta in queste ore, è semplicemente l’applicazione dell’articolo 51 del codice penale per gli amministratori dell’azienda, che dice: “l’esercizio (…) dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica (…) esclude la punibilità.” La linea di pensiero è semplice: è impossibile continuare ad amministrare il sito, e la conversione — lunga e costosa — nel contesto della legge. Si tratta, per lo Stato, di una gravissima ammissione di sconfitta, e per ArcelorMittal una strenua presa di posizione — il profitto, la legalità, e la difesa ambientale: pick two, e uno dei tre è indiscutibile.
La politica italiana — da questo punto di vista, in particolare, quella progressista — si è drogata negli ultimi anni di un sogno sullo sviluppo di un’Italia dei servizi, dei quaternario avanzato, delle start–up da Milano a Palermo. È un bel sogno, quello di una specie di Silicon Valley diffusa, su cui in particolare la figura di Matteo Renzi ha scommesso molto — incassando praticamente niente, con la possibile eccezione dell’“accademia per sviluppatori” di Apple a Napoli.
Il tema della riconversione ambientale è sostanzialmente marginale nella politica italiana attuale — figlio di un vuoto ideologico grande quanto un cratere lunare. Nessuno si sogna di dire che l’Italia può fare a meno dell’acciaio, ma nessuno ha una proposta valida per puntare a una conversione in ottica ambientalista dell’industria, e inoltre nessuno ha idee su occupazioni alternative degli spazi.
È sacrosanto vedere la situazione dell’emergenza Ilva e giungere alla conclusione che sia necessario un intervento statale nell’economia del settore — ma il problema alla base è ancora più profondo del rigetto ideologico di un’idea simile: questo Governo, e la politica italiana in generale, è in grado di guidare l’industria del Paese verso una conversione ecologica? Ci sono le idee, gli strumenti politici, per preparare l’industria italiana alle sfide dei prossimi decenni?
La crisi dell’Ilva ha fatto sparire dalle pagine dei giornali, e anche da quelle di Facebook per fortuna, lo psicodramma della plastic tax. Ogni tassa indiretta resta connaturatamente regressiva, ma l’intero dibattito, almeno nell’alveo che vorrebbe dirsi progressista — ricordiamoci che questo è il Governo del cosiddetto Green New Deal, — si è sviluppato attorno alle industrie che producono la plastica in Emilia Romagna. Il confronto tra le due situazioni non potrebbe rendere più cristallino quanto la politica arrivi disarmata a un’emergenza del calibro di quella dell’Ilva. Un’emergenza, per altro, che prosegue al rallentatore da sette anni, e che poteva essere risolta da anni se un Governo, uno qualsiasi dei sei Governi in sette anni, avesse avuto una visione del futuro dell’industria per questo Paese.
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in copertina, foto CC di Enrico Viceconte
Marco Minoggio e Sara Catalano hanno contribuito a questo articolo