in copertina, foto via Twitter
ll Consiglio presidenziale libico ha emesso un decreto che limita le operazioni delle navi umanitarie e legalizza gli interventi di polizia a bordo: una versione libica del “codice di comportamento” di Minniti, a pochi giorni dal rinnovo del memorandum tra Italia e Libia.
Il 14 settembre scorso il Consiglio presidenziale del Governo di Accordo Nazionale della Libia ha emesso un decreto legge, in vigore dalla stessa data di emissione, rivolto alle Organizzazioni non governative e internazionali che operano nel mar libico.
Il documento, trasmesso anche in Italia e tradotto ieri in italiano dall’Arci Immigrazione, consiste in 19 articoli volti a limitare al minimo le possibilità di intervento delle Ong. Il tentativo è quello di tenere sotto controllo l’operato delle navi e privarle di qualsiasi possibilità di azione volontaria. Gli articoli del decreto infatti sono contraddittori e vaghi: da un lato si impedisce qualsiasi intervento degli aiuti umanitari, dall’altro si sottolinea che il movente del governo è di “collaborazione e supporto” (Articolo 8).
In generale gli articoli si sviluppano su queste basi: ogni intervento o azione delle Ong deve prima essere notificata alle autorità che devono dare il permesso per attuarla, la polizia può intervenire in qualsiasi momento bloccandone l’operato, i naufraghi eventualmente salvati non possono essere riportati in Libia.
Il decreto coinvolge direttamente la Guardia costiera libica e le autorità di polizia, autorizzate a salire sulle navi, fare controlli senza motivi fondati e bloccare gli interventi: “L’autorità marittima, nell’area dichiarata, esegue la procedura d’infrazione con le navi e le unità sequestrate e sospettate in coordinamento con le altre autorità coinvolte. E ove applicabile saranno esposte davanti alla procura pubblica” (Articolo 17.) Esattamente come nel Codice Minniti, nel quale si autorizzava la polizia giudiziaria a intervenire salendo sulle imbarcazioni e bloccando le operazioni.
Alle Ong, inoltre, non è consentito mandare segnali luminosi alle “imbarcazioni clandestine” (Articolo 14) per facilitare e rendere sicuro il loro percorso — condizione esattamente uguale al terzo punto del Codice Minniti — e, una volta che le operazioni si sono concluse, hanno il dovere di consegnare tutte le barche e i motori usati allo Stato libico che le sequestrerà (Articolo 13.)
Nel testo le azioni umanitarie sono definite letteralmente “operazioni di contrabbando,” ed è dunque chiaro come il documento voglia essere un esempio di criminalizzazione delle operazioni di salvataggio. Come riportato da Repubblica, questo codice è stato definito da Filippo Miraglia, responsabile dell’ufficio Immigrazione dell’Arci e presidente ARCS, un “Codice Minniti libico,” che non solo intende rendere illegali e perseguibili le operazioni di salvataggio, ma che è anche illegittimo perché emesso da una delle parti della guerra civile in atto in Libia dal 2014, e non da uno stato sovrano. Sempre Miraglia ricorda che le operazioni di salvataggio in mare sono “attività obbligatorie e regolate internazionalmente,” e che spesso in passato il Centro marittimo di coordinamento libico ha già avuto difficoltà a gestire la situazione dei migranti, a causa dei grandi numeri e delle strumentazioni arretrate.
Le conseguenze per le organizzazioni che non rispettano gli Articoli del decreto sono la cancellazione dell’autorizzazione a operare, la cancellazione del nome e l’impossibilità di avere altre autorizzazioni in futuro (Articolo 18.)
La firma del decreto legge arriva solo tre giorni prima del rinnovo automatico del memorandum d’intesa tra Italia e Libia, tramite il quale, tra le altre cose, l’Italia e l’Europa finanziano i campi di concentramento del governo di accordo nazionale e l’attività della guardia costiera libica. Vuol dire continuare a collaborare e accettare l’autorità di uno stato che ha, a voler ignorare le violazioni dei diritti umani, gestito la situazione con una duplicità che rende impossibile proseguire qualsiasi tipo di collaborazione internazionale. Basti pensare agli sviluppi degli ultimi giorni sul ruolo del trafficante Bija, di cui il ministro dell’Interno libico ha chiesto l’arresto mentre veniva nominato capo della Guardia costiera di Zawyah.
Ieri pomeriggio 26 associazioni — tra cui Arci, Amnesty International, Oxfam, Emergency — hanno annunciato che sarebbe stata presentata oggi a Roma una lettera aperta per chiedere al governo di bloccare gli accordi con la Libia. A livello parlamentare, sono diverse le voci di chi si dice a favore — e hanno due volte ragione per farlo, perché, il governo ratificò l’accordo senza un passaggio parlamentare, una forzatura particolarmente grave, che viola l’articolo 80 della Costituzione. Ma il mese scorso la ministra dell’Interno Lamorgese si era espressa chiaramente a favore della riconferma.
Salvini ha lasciato il segno non solo nell’impostazione della politica del nostro governo, ma di tutta l’Unione europea, che malgrado la finta opposizione alla linea dell’ex ministro dell’Interno ha evidentemente molto apprezzato l’ulteriore arretramento in ambito di diritti umani. Di fronte al nuovo decreto libico, è inevitabile sottolineare come le operazioni delle ONG si farebbero sempre più difficoltose se venisse applicato — basti solo pensare a quanto successo alla Alan Kurdi nei giorni scorsi, quando è stata minacciata a mano armata dalla sedicente Guardia costiera libica.
Gli accordi con la Libia forzano così il nostro paese — e l’intera Ue — in rotta di collisione con le leggi internazionali sia per l’organizzazione dei campi di concentramento nel paese, dove sono imprigionate quasi 5 mila persone, senza contare quelle in mano ad organizzazioni criminali, che per la gestione dei naufraghi. Da questo punto di vista, commenta Paolo Pezzati di Oxfam Italia, l’unica soluzione è l’attivazione di una nuova missione di salvataggio governativa. Una decisione, però, per cui è necessaria una completa inversione delle attuali politiche italiane ed europee.