La nostra fame ci appartiene
Fame di Roxane Gay è un libro onesto e brutale che racconta la storia di un rapporto malsano con il cibo — una storia familiare a gran parte delle donne occidentali. Ma è da questa consapevolezza che possiamo partire per riappropriarci dei nostri corpi.
in copertina, Nackte Mädchen unterhalten sich, di Ernst Ludwig Kirchner (1910)
Fame di Roxane Gay è un libro onesto e brutale che racconta la storia di un rapporto malsano con il cibo — una storia familiare a gran parte delle donne occidentali. Ma è da questa consapevolezza che possiamo partire per riappropriarci dei nostri corpi.
Questo articolo è apparso per la prima volta sul nostro primo numero di carta, ANTIFOOD.
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Per quanto mi sforzi e cerchi di frugare nei miei ricordi, non ho memoria precisa della prima volta che ho deciso consapevolmente di saltare un pasto nonostante fossi molto affamata. Non penso sia un qualche tipo di rimosso: ho semplicemente un sacco di cattive abitudini, e credo di non aver mai pensato che non mangiare a sufficienza potesse essere niente più di questo — un’altra innocua cattiva abitudine, tanto quanto mangiarmi le unghie o uscire d’inverno con i capelli bagnati. Sono peraltro stata molto fortunata: saltare i pasti è stata soltanto una brutta mania, fino a che non è diventata, per un periodo difficile, ma abbastanza breve da aver avuto salva la vita, una specie di tortura auto-imposta, un mezzo per manipolare e pretendere l’attenzione delle persone che avevo vicine.
La mia storia però, è comune e vicinissima a quella di quasi tutte le donne che conosco: donne giovani, intelligenti, istruite, sicure di sé. Quello che mi importa di questa storia non sono le piccolezze e i dettagli che la distinguono dalle altre (dov’ero la prima volta che mi sono guardata le cosce allo specchio e ho pianto?), ma proprio il fatto che il cuore della sua trama, spogliato delle cose che sono solo mie, è una costante nelle vite delle donne occidentali.
Le donne spesso raccontano le proprie storie per far capire agli altri cosa vuol dire in generale vivere-nel-corpo-di-una-donna. Roxane Gay è una scrittrice, insegnante universitaria e femminista americana. Anche Gay ha una storia che è insieme unica e uguale a mille altre: l’ha scritta in un libro,un lungo personal essay che s’intitola Hunger: A Memoir Of (My) Body, pubblicato nel 2017 e tradotto in italiano l’anno scorso da Einaudi.
Il saggio si apre con periodi scheletrici che sembrano i pezzetti di un haiku o un aforisma di Delfi: “Ogni corpo ha un racconto e una storia / qui offro i miei, con una memoria della mia fame.”
Hunger è, innanzitutto, una lettura dolorosa come un pugno in faccia. La storia personale di Roxane Gay è drammatica: dopo aver subito uno stupro di gruppo a dodici anni, da parte di una gang il cui leader è un ragazzino che chiama Christopher — e di cui, racconta, è stata innamorata e succube come è possibile essere solo nella vulnerabilità estrema della preadolescenza, sia prima sia dopo lo stupro — Roxane inizia a mangiare con disperazione e senza misura. Nasconde per anni ai genitori la violenza subìta, seppellendola il più a fondo possibile. Nel cibo trova soddisfazione e conforto immediato, ma allo stesso tempo cerca, in modo semi conscio, di fare del suo corpo una fortezza solida e massiccia, in grado di proteggerla da ulteriori abusi. Determinata a riempire il vuoto che l’umiliazione e il silenzio creano nelle vittime di violenze sessuali, fa del cibo uno scudo, che circonda e protegge “quel poco che era rimasto” della dodicenne che era stata prima che quello stesso corpo venisse spezzato. Non smette di mangiare, nella speranza che un corpo più grande riesca a proteggere la ragazzina vulnerabile e ferita che resta dentro di lei: “Mangiavo perché speravo che, se il mio corpo fosse diventato repellente, allora avrei potuto tenere lontani gli uomini,” è la razionalizzazione della donna adulta, che guarda indietro per capire le ragioni che l’hanno spinta a costruire questa “gabbia” di cui lei stessa è artefice.
Quando ero una bambina sapevo con precisione cosa fossero i disturbi alimentari, perché a scuola mi era stato spiegato bene, con accuratezza e tatto.
Con la stessa precisione, come avevo imparato le tabelline e il funzionamento della fotosintesi clorofilliana, sapevo che essere essere magra voleva dire essere carina, e che per essere carina sarebbe sempre stato necessario essere magra.
Se definiamo l’anoressia come una forma di ossessione o di fissazione nei confronti del cibo — sostiene Naomi Wolf in The Beauty Myth, saggio fondamentale per il femminismo di seconda ondata e libro che ti salva la vita — possiamo dire, rimanendo ancorati al reale, che la maggior parte delle donne occidentali di classe media è, in qualche misura, anoressica. Siamo il prodotto del nostro ambiente, e il nostro ambiente è una società ossessionata (sempre secondo la Wolf) dalla magrezza femminile, perché è ossessionata dalla nostra obbedienza più di quanto lo sia dall’estetica o dalla salute.
Alle bambine viene insegnato il valore estetico ed etico dell’obbedienza: così noi donne viviamo nel nostro corpo, e per questa ragione lo puniamo quando si ribella sfuggendo al nostro controllo. Averlo domato è un sollievo. Una descrizione lucida e dolorosa di questo stato mentale, si trova nelle parole di Amélie Nothomb, in Biografia della fame: “Avevo ucciso il mio corpo. Vissi la cosa come una vittoria strabiliante.”
Hunger colpisce perché è onesto e brutale, e perché la sua natura duplice di autobiografia e saggio permette all’autrice di riflettere con grande lucidità, alla luce del trauma subito (che si mantiene perennemente sullo sfondo, come causa della volontaria perdita di controllo sulla sua fame) sul rapporto che ha con il suo corpo “malsanamente” — la traduzione italiana più vicina al “morbidly” usato nel testo — obeso. Tra i numerosi sentimenti, alcuni inevitabilmente contrastanti, provati nei confronti di questo corpo grande e sicuro, spiccano per Gay disagio e vergogna: un corpo obeso rende difficile ogni aspetto della vita quotidiana, che viene vissuta in un mondo costruito a misura di persona tendenzialmente magra e canonicamente in forma. Soprattutto, un corpo obeso rompe con il canone estetico prevalente riguardo ai corpi femminili — belli perché morbidi e sensuali, ma contemporaneamente amabili solo se fragili e sottili. Gay sa e vede che la convinzione che le donne debbano essere magre o sottopeso è un’espressione della cultura sessista, ma allo stesso tempo riconosce di essere da questa cultura inevitabilmente influenzata. Non odia il suo corpo, non tanto quanto questa società vorrebbe, ma odia il modo in cui il mondo molto spesso reagisce al suo corpo: sa che è fondamentale resistere agli standard irragionevoli sul suo aspetto, ma quello che razionalmente sa e quello che inevitabilmente prova sono spesso due cose molto diverse, a tratti inconciliabili.
Gay confessa la propria vergogna e si giustifica: “Sono il prodotto del mio ambiente.”Questa ammissione di incertezza e di affaticamento nel voler essere una brava femminista, una femminista che “non odia” il proprio corpo, ed essere una donna che vive in una società che invece vorrebbe che si odiasse con tutta se stessa, è il punto di forza del libro di Gay, quello che apre a moltissime discussioni ulteriori.
Si potrebbe dire, persino, che per quanto in questa autobiografia il soggetto principale sia proprio questo corpo la volontà è di aprire la possibilità di identificazione e riflessione a tutte e tutti: questa intenzione è visibile fin dal titolo, che recita A Memoir of (My) Body: il suo corpo viene fin da subito messo graficamente e narrativamente tra parentesi.
Nella dialettica costante tra personale e collettivo, tra pubblico e privato, i nostri corpi diventano un terreno di scontro politico, ed è impossibile ignorare il legame evidente tra il potere psicologico esercitato da una società che plasma donne deboli e le battaglie dei governi conservatori contro i diritti riproduttivi e all’autonomia femminile.
Riuscire a farsi strada in questo magma di consapevolezza e convinzioni contrastanti è un’impresa apparentemente titanica, ma è anche l’unica strada percorribile e quella che in assoluto è necessario perseguire.
La nostra fame ci appartiene ancora, e sono convinta che un cambiamento di paradigma sociale e politico non possa che cominciare da questa. Imparare la disobbedienza e riappropriarci dei nostri appetiti, e poi ripartire da lì.
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