La trattativa tra Pd e M5S: nel tatticismo della crisi politica si sta uccidendo la politica stessa
Da una crisi di governo brevissima ma che sembra eterna, segnata da ritmi forsennati ma senza letteralmente nessun passo avanti, escono a pezzi tutti i partiti, apparentemente ormai privi di qualsiasi bussola politica.
in copertina, foto via Facebook
Da una crisi di governo brevissima ma che sembra eterna, segnata da ritmi forsennati ma senza letteralmente nessun passo avanti, escono a pezzi tutti i partiti, apparentemente ormai privi di qualsiasi bussola politica.
Non ha mai senso parlare di “fine della politica,” ma l’impasse sulla formazione di un nuovo governo segna un nuovo punto basso in cui domina una nuova forma di tatticismo politico, senza la politica stessa.
Questa deriva era inevitabile, ed è stata resa possibile dal progressivo impoverimento dei contenuti della retorica e della linea di tutti i partiti negli ultimi sette, otto anni — da quando è iniziata la metamorfosi delle destre facendo opposizione alla riforma Fornero. Ma nell’ultimo mese ha subito un’accelerazione da montagne russe, che non potrà che causare violente nausee nell’elettorato.
La Lega è il primo partito ad aver immediatamente avvertito il colpo. L’apertura della crisi è costata al partito di Matteo Salvini cinque punti percentuali, secondo gli ultimi sondaggi. Che non vuol dire che la fase di “crescita” della Lega si sia fermata, non necessariamente, ma che Salvini è logicamente identificato come responsabile della situazione attuale. L’ancora ministro sta cercando di metterci una pezza, facendo offerte sempre piú generose al Movimento 5 Stelle per rimettere in piedi un governo.
È impossibile da questo lato degli eventi valutare come sarebbe gestita la formazione di un nuovo esecutivo gialloverde, ma di certo entrambi i partiti ne uscirebbero drasticamente compromessi. Di Maio avrebbe “vinto,” ma si tratterebbe di una vittoria pirrica, certa di aver solo rimandato la prossima crisi con l’alleato. Il partito, poi, dovrebbe sacrificare Conte, attualmente la propria unica personalità che regge bene nei sondaggi.
Immaginare Salvini che riesce a stare, piú o meno compostamente, dentro il governo in cui l’ex compagno di merende Di Maio è diventato presidente del Consiglio è altrettanto impossibile. Mentre in queste ore sembra che si stia consumando la rottura tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle, è importante ricordare che se è vero che un nuovo governo gialloverde sarebbe “meno complesso” da avviare rispetto a un governo con il Pd — non ci sarebbe da rifare un programma, basterebbe un minimo rimpasto — non si tratta comunque di un percorso semplicissimo, e che presenta difficoltà non solo politiche ma proprio a livello comunicativo.
È indubbio, però, che il “forno” — espressione orribile — della trattativa con il Partito democratico è quello più visibilmente fuori dai toni.
Dal primo minuto, il Movimento 5 Stelle ha gestito il dialogo non come, appunto, un dialogo, ma come avrebbe fatto uno scommettitore. Oltre al punto fermo su Conte alla presidenza del Consiglio, sembra che tra le richieste del partito di Casaleggio ci siano anche Di Maio al Viminale, tutti i ministeri di rilievo con l’eccezione di Esteri ed Economia, riproporre il “format” dei due vice–premier con Zingaretti, e perfino conservare le bozze della legge di bilancio già avviata dal precedente esecutivo.
Si tratta, evidentemente, di pretese impossibili, completamente diverse dallo “sparare alto” per poi trovare un compromesso. Soprattutto alla luce della cancellazione dell’incontro di questa mattina, dato che è molto difficile trovare un compromesso senza parlarsi.
Lo svuotamento dei contenuti della retorica politica di cui parlavamo sopra è proprio quello che ha reso possibile la posizione del Movimento 5 Stelle di queste ore, che potremmo riassumere in:
Il Partito democratico ci ha chiesto solo le poltrone e non accetta la nostra richiesta di conservare quella più importante.
Il M5S ha perso così tanto tempo a insistere su Conte che ora non ha più modo di uscirne sacrificandolo. Il caso di Conte è un ottimo esempio della velocità con cui i temi della crisi slittavano sotto le pretese di Di Maio: solo quattro giorni fa la pretesa di tenere Conte premier era stata inquadrata dai retroscena come “Di Maio che cerca di bruciare il suo principale antagonista interno.” Da allora, chiunque, letteralmente chiunque, ha iniziato a fare pressioni sul Partito democratico perché accettasse il premier dal brillante curriculum.
Oltre alle richieste — decidete voi quanto ragionevoli — il Movimento 5 Stelle a furia di rimandare si è messo da solo all’angolo per verificare il sostegno alla coalizione su Rousseau. Se si farà il voto sulla piattaforma online, sarà da fare in fretta e furia; se non si farà, sarà l’ennesimo compromesso che il Movimento 5 Stelle accetta rispetto ai propri presupposti ideali in cambio del potere.
Anche il Partito democratico si trova a un bivio impossibile. Accusato dal Movimento 5 Stelle di tenere solo ai nomi dei ministeri, accusa il partito di Casaleggio esattamente della stessa cosa. Ma di fronte a sé ha solo due opzioni: accetta Conte presidente del Consiglio, sacrificando la politica sull’altare del tatticismo, oppure si prepara ad essere attaccato dal Movimento 5 Stelle per essere stato parzialmente responsabile di un ritorno al voto. Oppure il Movimento 5 Stelle cede su Conte, ma in questo momento sembra fuori discussione.
Il Partito democratico si è giocato irrimediabilmente l’occasione per sottolineare come, se non può vantarsi di essere un partito di centrosinistra, almeno possa dire di essere l’ultimo partito normale rimasto in Italia. Non uno dei due partiti padronali, non un partito forse colluso con forze estere, non residuali fascisti. Normale. Per farlo, bastava presentare poche proposte non per sottolineare la discontinuità dal governo precedente, ma di senso semplicemente opposto. Si potevano fare uscire sui giornali lanci sui salari, sugli ospedali, su quello che si voleva. Si poteva anche essere estremamente aggressivi, mantenendo questa forma, che sembra precludere a posizioni forti solo perché siamo condizionati dalle politiche ingrigite del Partito democratico. Questa sarebbe stata una conversazione interessante da avere sulla piazza pubblica. Al contrario, il Partito ha bruciato i cicli di informazione “sul programma” con punti assolutamente generici, solo su fronti che interessano ai politici e gli appassionati di politica.
Nelle ultime ore le accuse tra M5S e Pd stanno sfiorando il ridicolo. Entrambi i partiti si accusano reciprocamente di parlare solo di poltrone e non di contenuti, ma nessuno dei due ha avanzato pubblicamente un vero e proprio programma. Quali sono le proposte di “salari, ambiente, sviluppo e imprese, infrastrutture, scuola e cultura,” che ha portato il Partito ai 5 stelle, citate da Paola De Micheli? Quali sono “i temi” che verrebbero “prima,” con cui il Movimento 5 Stelle nega che Di Maio ambisca a mettere le mani sul Viminale? Nessuno nei due partiti riesce a dare delle risposte ragionate. Di Battista parla di Benetton, Malagò e conflitti d’interesse. Congratulazioni, saranno certamente tutti e tre al centro della legge di bilancio, che qualcuno dovrà ben scrivere.
Fuori dal Pd c’è Bersani che parla di abbassare le tasse sul lavoro non con sgravi sulle aziende ma con progressività fiscale, che potrebbe essere letteralmente l’unica cosa vera e attuabile che è stata detta in questa crisi, ma viene da un politico di un partito marginale nella trattativa. Cosa bisogna fare per pretendere proposte, letteralmente, qualsiasi proposta simile dai due partiti che da giorni ammorbano il paese con il proprio tiro alla fune per formare il governo?
Se c’è qualcosa, oltre al tatticismo, in questa crisi, entrambi i partiti sembrano aver perso la capacità di dimostrarlo. A conti fatti, che non abbiano nessuna proposta o che non le sappiano esprimere, è la stessa cosa.
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