Berlino ha approvato un blocco di cinque anni del prezzo degli affitti, per contrastarne l’aumento vertiginoso — c’è però chi vorrebbe andare oltre, espropriando un gran numero di appartamenti. E in Italia?
A fine gennaio avevamo scritto di come la situazione affitti di Milano sia ormai diventata insostenibile, partendo da un esempio ancora più disturbante: quello della città di Berlino, la città europea che negli ultimi dieci anni ha visto la peggior crisi delle locazioni di tutto il continente. Ieri è avvenuta quella che può a tutti gli effetti essere definita una svolta: il consiglio comunale della capitale tedesca ha infatti approvato il blocco dell’aumento degli affitti per i prossimi cinque anni.
Secondo il Deutsche Welle, i punti chiave del piano sono:
- I livelli di affitto massimo verranno fissati su tutta la città e gli affittuari avranno il diritto legale di fare ricorso se le somme richieste sforeranno il tetto;
- Il tetto entrerà in vigore il primo gennaio 2020 e sarà retroattivo fino dal 18 giugno;
- Ci saranno alcune eccezioni, come in alcuni casi di ristrutturazione e per gli edifici di nuova costruzione;
- I proprietari che non rispettano le regole rischiano una multa fino a 500.000€.
La situazione attuale degli affitti a Berlino è raccontata molto bene da questo articolo in inglese, uscito la scorsa settimana sulla rivista Popula. Nel 2009 un affitto in città costava in media 6 euro al metro quadro, mentre oggi la media sfora i 10 euro — e in alcuni quartieri sfora anche i 13, cifra resa ancora più notevole in quanto alcune delle zone più care sono zone di tradizione operaia, non aree di lusso.
Moltissime case a Berlino sono di proprietà di grandi società di investimento, che costituiscono uno dei “poteri forti” della città e lucrano grazie alla loro posizione di mercato, che gli consente di fare il bello e il cattivo tempo nel panorama abitativo cittadino. Molti di questi investitori hanno approfittato dello spopolamento di Berlino a cavallo tra gli anni Novanta e primi Duemila — gli anni successivi al crollo del muro, insomma — quando la Germania era un paese in crisi, definito “il malato d’Europa.”
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Con la ripresa economica del paese e della città, diventata uno dei principali poli d’attrazione europei anche per le condizioni di vita relativamente economiche rispetto ad altre metropoli come Londra o Parigi, gli affitti hanno cominciato ad aumentare. O meglio: queste grandi società hanno iniziato a vedere l’opportunità di fare sempre più soldi aumentando gli affitti, e si sono regolate di conseguenza.
Già nel 2015 la città aveva provato a porre un freno al caro affitti con il cosiddetto Mietpreisbremse, traducibile come “calmiere sul prezzo degli affitti,” una versione più blanda del provvedimento approvato ieri. I proprietari però hanno trovato il modo di aggirarlo praticamente sempre, rendendolo di fatto inefficace. I proprietari, si capisce, non sono molto contenti — Haus und Grund (Casa e Terra), la più grande associazione di proprietari tedesca, ha chiesto ai propri membri di alzare gli affitti lunedì, prima che il piano di blocco dei prezzi venisse reso noto.
Visto lo spessore morale ed economico — l’uno inversamente proporzionale all’altro — dei grandi proprietari, non stupisce che il provvedimento appena approvato, per quanto notevole, non sembri abbastanza incisivo. È stata avanzata un’altra proposta, ben più radicale: espropriare chi ha più di 3000 appartamenti e darli in gestione ad un’azienda pubblica. L’obiettivo è statalizzare 200 mila appartamenti: basti pensare che alcune aziende ne possiedono diverse migliaia. Deutsche Wöhnen, la più grande, ne possiede addirittura poco meno di 100 mila.
Berlino è governata da una giunta di centrosinistra, ma non tutti sono entusiasti di quest’idea. Linke e Verdi la appoggiano, mentre la SPD è più timida.
Il funzionamento della città di Berlino è piuttosto complicato — in sostanza, per venire discussa ed eventualmente approvata, questa proposta dovrà raccogliere almeno 190 mila firme in città nei prossimi mesi. Un sondaggio di gennaio, però, ha rilevato che più della metà dei berlinesi sarebbe favorevole all’iniziativa. Il capo di Deutsche Wöhnen ha già detto sprezzantemente che è sicuro che non se ne farà nulla, visto che la Germania non è “una repubblica delle banane.”
Nella costituzione tedesca però è scritto che lo stato difende sì la proprietà privata, ma che questa deve “essere utile per il benessere pubblico.” Quindi, nel momento in cui la proprietà privata di qualcuno diventa uno strumento di potenziale oppressione, lo stato è autorizzato a porre un freno. Senza entrare nel merito del diritto costituzionale tedesco, è interessante notare che una clausola simile è contenuta anche nella Costituzione italiana. Ecco cosa dice l’articolo 42:
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.
Del resto anche i berlinesi promotori dell’esproprio fanno notare che le stesse grandi società che sono pronte a mettere in guardia contro i rischi di un “ritorno alla Germania Est” sono le stesse che sono ben contente quando terreni o case vengono espropriati per far posto a nuove infrastrutture, portatrici di succosi appalti. Questa vicenda dunque può essere molto utile per riflettere su chi è l’arbitro della politica — tedesca o italiana — e chi siano le persone che, costrette da decisioni e interessi più forti di loro, portano i potenti sulle spalle.
Come facevamo notare, in Germania almeno è presente un dibattito a riguardo. La situazione italiana invece è completamente statica e non si vedono all’orizzonte forze politiche capaci di proporre politiche progressiste di ampio respiro. Basta guardare il recente dibattito sul salario minimo, con Confindustria a cui vengono i capelli bianchi solo all’idea di essere costretti a non sottopagare i lavoratori. Il salario minimo tra l’altro è stato proposto dal Movimento 5 stelle, una forza che nonostante faccia parte di un governo di estrema destra è riuscita, in questo caso, a sorpassare a sinistra il Partito democratico. Gli italiani si trovano stretti tra salari che non crescono e affitti sempre più strangolatori. Il governo, però, sembra avere altre priorità, come abbassare le tasse ai ricchi.
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