Emilia Romagna, Toscana e Marche saranno tra le regioni più colpite dalla Brexit. Ma il governo non fa niente.
La via crucis di Theresa May verso il 30 marzo non sarà meno travagliata dopo il voto del 12 dicembre. La fiducia strappata al Parlamento non è indice di una ricomposizione del fronte, non significa affatto che il Primo Ministro britannico sia riuscita a lenire la frattura interna al Partito Conservatore. Sembra piuttosto una vittoria di Pirro: i falchi della “hard Brexit” avranno ancora modo di bloccare l’accordo con l’Unione Europea a gennaio, al momento del voto. E all’ostruzionismo dei compagni di partito, come se non bastasse, fa da sponda l’indolente indifferenza dei colleghi oltre lo Stretto della Manica. È difficile che i negoziati vengano riaperti – nessuno da Bruxelles sembra intenzionato a modificare un accordo così vantaggioso per l’Unione.
Accordo che rischia comunque di diventare carta straccia nel giro di due mesi.
La linea dura, scientemente disinteressata ai destini del Regno Unito e vagamente passivo-aggressiva, dell’Unione è valida e porterà frutti a una sola condizione: che i Paesi membri, tutti e in modo coordinato, indossino prima del giorno fatidico il giubbotto salvagente.
Questa consapevolezza era emersa chiaramente un mese fa, quando la Commissione Europea diffondeva una comunicazione in cui si indicavano a Stati, imprese e cittadini le uscite di sicurezza. Nel documento la Commissione ribadiva il suo ruolo di mediatore e coordinatore tra i Paesi Ue nella fase di elaborazione a livello nazionale di una legislazione utile a sventare gli effetti deleteri di una Brexit senza accordo.
La Commissione, di per sé, da mesi lavora in questo senso, ma lo sforzo dev’essere necessariamente condiviso e coerente per essere efficace. In altre parole, dovrebbe essere unitario. Va da sé che qualsiasi negoziato bilaterale tra uno Stato membro e il Regno Unito comprometterebbe l’unità d’azione dell’Unione, mentre auspicabile sarebbe la produzione di leggi quanto più armoniche e funzionali a tamponare le perdite.
Proprio in questi giorni i parlamenti di Francia e Germania hanno approvato i primi pacchetti di salvaguardia. E l’Italia?
Cosa prevedono i provvedimenti francesi e tedeschi
Lunedì 10 dicembre l’Assemblea Nazionale francese ha approvato un disegno di legge che autorizzerà il governo di Edouard Philippe ad adottare misure d’emergenza in vista della Brexit, in caso di mancato accordo. Uno dei punti cruciali della proposta è la protezione dei cittadini britannici che lavorano nel servizio pubblico, un settore riservato strettamente ai cittadini francesi ed europei. Centinaia di insegnanti e di docenti rischierebbero il posto di lavoro e si troverebbero in situazione d’irregolarità, qualora Parigi non si muovesse per tempo.
La Francia è poi coinvolta in prima istanza nella probabile restaurazione di una frontiera tra le due sponde dello Stretto della Manica, circostanza che richiederebbe il rafforzamento delle infrastrutture e del personale di controllo. Anche a tal proposito il Parlamento concede il nulla osta al governo per l’adozione di misure straordinarie. Già a fine agosto però era disponibile sul sito della Dogana francese un resoconto di preparazione alla Brexit dettagliato per le imprese.
In preparazione sin da ottobre, il pacchetto di riforme adottato dal Bundeskabinett appositamente creato e presieduto da Angela Merkel è di diverso respiro e tocca i regimi fiscali e di tassazione, ritocchi della legislazione sugli istituti di credito edilizio e sulle obbligazioni ipotecarie – tutti ambiti in cui il Regno Unito verrebbe trattato come Paese terzo, in caso di “no-deal”. Alcune società finanziarie perderebbero di fatto l’accesso al mercato europeo, causando ripercussioni economiche rilevanti. Verosimilmente, le prossime misure riguarderanno la tutela dei circa 100mila cittadini britannici residenti in Germania.
Suonerà sorprendente agli italiani, ma non solo a Berlino si sta correndo ai ripari: anche il Land di Brema, su iniziativa del sindaco-presidente dell’SPD Carsten Sieling, intende portare avanti dei provvedimenti in preparazione alla Brexit, essendo Brema e Bremerhaven snodo logistico fondamentale della Bundesrepublik.
Così come in Francia e in Germania, nei Paesi Bassi, in Spagna, in Belgio le istituzioni si stanno muovendo da prima dell’estate.
Cosa sta facendo l’Italia?
Sulla base esclusiva di quanto emerge dai media nazionali, la risposta è univoca: niente, in Italia non si sta parlando di come prepararsi alla Brexit, con o senza accordo. Di Brexit si racconta quasi quotidianamente, si seguono – una ad una — le tappe del calvario di Theresa May, ma come una fiction non nostra, con distacco, come se non tangesse le mediterranee coste italiche.
In parte è così, come vedremo: l’impatto dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ci riguarderà meno, in confronto ad altri Paesi. Ciò non toglie che delle ripercussioni ci saranno.
Chiunque tentasse di andar oltre alle notizie della stampa, rimarrebbe deluso, come deluse sono rimaste fino ad oggi le aspettative dei cittadini britannici residenti in Italia. In una lettera inviata al giornalista de La Repubblica Enrico Franceschini, pubblicata il 12 dicembre, l’associazione British in Italy lanciava un appello per richiamare l’attenzione del Governo Conte sulla condizione di 65mila cittadini UK attualmente nel nostro Paese.
Sul sito del Governo Italiano, e parimenti su quello del Parlamento, della Camera e del Senato, persino su quello del Ministero delle Politiche Europee manca una pagina in cui si offrano informazioni dettagliate per imprese e cittadini in merito agli effetti del recesso britannico. Cercando la voce “Brexit” sul portale del Dipartimento delle Politiche Europee i risultati sono tutto meno che pertinenti. Gli ultimi aggiornamenti di rilievo sono datati al 2017, quando l’ex Sottosegretario con delega agli Affari Europei Sandro Gozi (PD) per conto del Governo Gentiloni, capendo l’antifona, aveva iniziato a dialogare con Londra al fine di tutelare i cittadini italiani in Gran Bretagna. Le informazioni più dettagliate ed esaustive si trovano (non senza difficoltà) sul sito della Farnesina e su quello dell’Ambasciata d’Italia a Londra.
Per riscattare la frustrazione a nulla vale scartabellare fra gli ordini del giorno e i resoconti dei lavori delle Commissioni parlamentari che dovrebbero affrontare la questione. Le terze e le quattordicesime Commissioni permanenti di Camera e Senato, da giugno a oggi, non hanno mai discusso il tema. Lo stesso si può dire delle decime Commissioni, dedicate all’industria, al commercio e al turismo – materie d’importanza capitale, che subiranno senza dubbio la Brexit. D’altro canto, nemmeno il Ministero dello Sviluppo Economico fornisce materiale per chi volesse saperne di più e prepararsi coscientemente.
A luglio la senatrice Laura Garavini (PD) aveva presentato un atto di sindacato ispettivo rivolto ai Ministri Di Maio e Moavero Milanesi in cui si sollevavano una serie di interrogativi sul destino dei nostri connazionali in Albione e sui provvedimenti che il Governo intenderà adottare, che però non ha a tutt’oggi ricevuto risposta. Si deve a un altro parlamentare del Partito Democratico, l’On. Massimo Ungaro, la tardiva, doverosa presentazione di una legge per l’“Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle questioni concernenti il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione europea”. Alla buon ora: a tre mesi scarsi dalla Brexit, in data 10 dicembre 2018, “mentre il Governo Conte latita” qualcosa si muove. I tempi d’approvazione e di formazione della commissione però sono ancora incerti e il tempo stringe.
Per un anno l’Italia ha assistito passivamente alla Brexit, pensando che bastasse il dialogo con il negoziatore Michel Barnier a tutelarla. Oggi, forse troppo tardi, si rende conto che avrebbe dovuto mettersi ai ripari prima.
L’impatto della Brexit sull’Italia
L’ansia precoce di Francia e Germania potrebbe essere giustificata dall’entità degli scambi e dei legami che questi hanno con il Regno Unito. In particolare la Bundesrepublik ha nel Regno Unito uno dei suoi mercati di sbocco principali. Il ricercatore dell’ISPI Antonio Villafranca, tuttavia, sottolineava alcuni giorni fa che la Gran Bretagna è attualmente il quarto mercato di destinazione dell’export italiano, a pari merito con la Spagna, dopo Germania, Francia e Usa, per un giro di affari che nel 2017 è valso 23 miliardi di euro. Una cifra che non andrebbe certo bruciata del tutto in caso di “no-deal”, ma che potrebbe andare incontro a una contrazione.
L’entità delle perdite è difficilmente calcolabile senza adeguati mezzi, ma ce ne può dare una qualche indicazione il report sull’impatto del recesso di Londra dall’Unione pubblicato nel marzo 2018 dal Comitato delle Regioni Ue.
I settori più colpiti sarebbero quello della meccanica strumentale, dei mezzi di trasporto e dell’industria agroalimentare; le attività che soffriranno di più la reintroduzione di barriere commerciali saranno comprensibilmente le piccole e medie imprese.
Il dato è tanto più preoccupante se si considera che saranno soprattutto alcune regioni italiane e alcune industrie a risentire maggiormente della Brexit, prefigurando una potenziale destabilizzazione dell’economia locale. Se, infatti, nel complesso l’Italia sembra non andare incontro a ricadute gravi quanto quelle di Germania e Francia, è nell’economia a scala ridotta che potrebbero verificarsi le ripercussioni più importanti.
Il Nord Italia risulterebbe particolarmente colpito nel settore di produzione dei macchinari, specialmente l’Emilia Romagna, il Centro nel settore tessile e di pelletteria, con perdite che toccheranno prevalentemente Toscana e Marche.
Non si tratta di rischi di lieve entità: Emilia Romagna, Toscana e Marche vengono citate nello studio del Comitato delle Regioni tra le aree dell’Europa a 27 più colpite dalla Brexit in assoluto.
Bisogna peraltro sottolineare il monito del Comitato nel commento allo studio, in cui si avverte che, focalizzandosi sul rapporto PIL/scambio commerciale di ciascuna regione in ciascun settore, si tratta pur sempre di un’analisi parziale, che non permette di cogliere l’impatto relativo della Brexit in quelle economie meno ricche e più concentrate (come potrebbero essere quelle del Sud Italia), né è capace di considerare altri indicatori altrettanto rilevanti. Ma d’altra parte nessuno a Roma pare essersi preoccupato di commissionare studi più specifici (e anche nella più rosea ipotesi che sia stato fatto, all’oscuro degli organi d’informazione, non se ne riescono a trovare i risultati).