Le femministe irachene non vogliono abbassare la testa

Dopo l’omicidio di quattro donne in Iraq, le attiviste del paese temono un’ondata repressiva. Ne abbiamo parlato con Yanar Mohammed, una delle figure più in vista del femminismo iracheno.

Le femministe irachene non vogliono abbassare la testa

Dopo l’omicidio di quattro donne in Iraq, le attiviste del paese temono un’ondata repressiva. Ne abbiamo parlato con Yanar Mohammed, una delle figure più in vista del femminismo iracheno.

“Gli omicidi sono iniziati con un’estetista, poi una chirurga estetica. Poi un’attivista ha parlato durante una protesta a Basra, nel sud del paese, in cui la gente chiedeva servizi di base come l’acqua. È stata uccisa due giorni dopo.” Yanar Mohammed mi parla di quello che sta succedendo nel suo paese, l’Iraq: negli ultimi mesi, donne che vivevano stili di vita diversi da quello tradizionale sono state assassinate per strada, in pieno giorno. Ad agosto, Rasha al-Hassan e Rafifi al-Yasiri, che lavoravano in cliniche di bellezza, sono state uccise ad una settimana di distanza.

Poi è stata la volta di Suad al-Ali, un’attivista per i diritti delle donne: morta a settembre dopo aver parlato alle proteste di Basra. “Noi la conoscevamo,” dice Mohammed, “e non era una femminista di alto profilo.” Ma secondo lei l’uccisione di un’attivista non troppo conosciuta è parte di una strategia: “Si stanno concentrando su donne che fanno attivismo da poco, così da spaventare le altre.” Due giorni dopo la morte di al-Ali, alla lista si è aggiunta Tara Fares, ventiduenne con quasi tre milioni di follower su Instagram. Come nelle altre, qualcosa in lei non piaceva alla parte conservatrice della società: nel suo caso era il suo atteggiamento aperto, quasi di sfida, nei confronti della vita tradizionale. Tara non aveva paura di mostrare i suoi tatuaggi, e non indossava vestiti che le nascondessero il corpo in modo conservativo.

Yanar Mohammed non è una donna qualunque: nata e cresciuta a Baghdad, membro del Partito Comunista Iracheno, dopo aver lavorato come architetto sia in Iraq che in Canada, nel 2003 ha fondato, nella sua città natale, un’organizzazione di nome OWFI – Organization of Women’s Freedom in Iraq – il cui scopo principale è “protezione, emancipazione e istruzione della donna.”

Oggi è una delle femministe irachene più di rilievo, e l’OWFI è passato ad un ufficio di poche stanze a Baghdad ad una rete con sedi in tutto il paese. La raggiungo per telefono mentre si trova a Toronto, e una delle prime domande che le faccio è se si trovi lì per evitare pericoli in Iraq. “Io non ho avvertito delle minacce dirette,” mi risponde lei, “ma due donne della nostra organizzazione, a sud e ad ovest del paese, sono state attaccate.” La prima, mi spiega, è stata seguita e fermata da un uomo vestito di nero, che poi l’ha minacciata con una pistola. “Si è salvata solo perché c’era suo figlio con lei,” dice Mohammed. La seconda è stata inseguita in macchina, e per scappare ha subito un incidente, fortunatamente non grave. “Mi hanno detto tutti di andarmene per qualche settimana, che stavano mirando ad attiviste come me.” Ma tutto ciò non sconvolge particolarmente i suoi piani – mi spiega che si sposta regolarmente fra Baghdad e Toronto, e tornerà in Iraq a novembre.

“Mi hanno detto tutti di andarmene per qualche settimana, che stavano mirando ad attiviste come me.”

“Non ci facciamo spaventare, ma le violenze stanno continuando,” insiste, “persino contro uomini che supportano il femminismo.” Le domando com’è il clima in Iraq al momento, e lei prende fiato prima di rispondermi: “Dipende da di chi stai parlando. Le donne nelle fasce economiche medio-basse hanno abbastanza difficoltà nella loro vita di tutti i giorni, per cui questi omicidi non sono una priorità per loro.” Ma la situazione cambia per chi è attiva sul piano politico e sociale, e l’aria che si respira è pesante: “Al momento, noi attiviste dobbiamo guardarci intorno ogni volta che usciamo di casa, per controllare che non ci siano uomini che ci aspettano. Molte sono paralizzate, impaurite.” E alcuni siti di informazione, come DW, parlando degli omicidi, hanno riportato che parti della popolazione sembrano giustificare le violenze, come se queste donne se le meritassero.

Yanar Mohammed, foto via Facebook
Yanar Mohammed, foto via Facebook

Secondo Mohammed – e non solo – i responsabili degli omicidi sono parte di una sorta di milizia filogovernativa, uno dei tanti gruppi religiosi che hanno iniziato ad acquisire potere politico negli ultimi quindici anni. È ormai risaputo che l’invasione statunitense dell’Iraq abbia lasciato il paese in condizioni peggiori di come l’avesse trovato: “Estremisti supportati dall’Iran e dall’Arabia Saudita hanno acquisito più potere sotto la supervisione americana, e gradualmente sono passati ad avere un controllo pressoché totale del paese,” mi spiega Mohammed. Il governo ha annunciato che condurrà un’indagine sugli omicidi, ma pochi hanno preso la comunicazione con serietà.

Anche se il problema al giorno d’oggi risulta complesso e radicato profondamente nella società, la fonte non è così difficile da identificare, almeno secondo Mohammed. L’occupazione statunitense ha favorito la nascita e presa di potere di questi gruppi religiosi che hanno riscontrato poca resistenza da parte della popolazione. Il loro fine, mi spiega Mohammed, non è rispettare (o far rispettare) la religione in sé, ma acquisire potere attraverso criminalità, corruzione, e la costante minaccia sulla popolazione. La religione è semplicemente il loro punto di partenza per avere il sostegno della gente. Allo stesso tempo, queste organizzazioni non sarebbero potute diventare così potenti se non fosse stato per gli anni di crisi economica e di assenza quasi totale di un governo, causati (con poca sorpresa) sempre dall’invasione statunitense. Uno di questi gruppi è diventato ciò che oggi è conosciuto come ISIS. Molti altri sono rimasti ad operare ad un livello locale, lontano dall’attenzione internazionale.

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Ciò che rimane oggi di quindici anni di occupazione statunitense e britannica è una società impoverita, e con un’amministrazione così profondamente corrotta da lasciare il sud del paese (dove si trova anche la città di Basra) senza acqua ed elettricità per settimane. In casi come questo, la situazione per le donne non fa che peggiorare. “Vent’anni fa, prima dell’invasione, le donne erano indipendenti. Quasi tutte noi eravamo laureate e lavoravamo nelle principali città,” racconta Mohammed. “È vero – non avevamo libertà politiche, perché eravamo sotto una dittatura.” Ma ‘l’importazione della democrazia’ non ha funzionato molto: “Oggi molte donne non trovano nemmeno lavoro. Non c’è lavoro nel settore privato, e nel pubblico entri solo se puoi corrompere qualcuno. Persino l’istruzione è diventata più difficile da ottenere. Molte donne oggi, specie dalle fasce economiche più basse, non hanno accesso ad istruzione o lavoro. E quindi se ne stanno a casa, coperte dalla testa ai piedi, aspettando soltanto il matrimonio.”

“Non ha senso parlare di parità se le donne sono minacciate sia dal governo che dalle loro stesse famiglie.”

Le abitudini sono cambiate, spesso tornando indietro di decenni. I cosiddetti ‘delitti d’onore’ – casi in cui un uomo uccide una familiare donna con il sospetto che lei possa aver causato disonore alla famiglia – diventati ormai rarissimi nel secolo scorso, oggi sono tornati comuni. Le donne hanno perso molte delle libertà personali di cui la generazione precedente ha potuto godere. Ed è su questo che lavora l’OWFI. “Non ha senso parlare di parità se le donne sono minacciate sia dal governo che dalle loro stesse famiglie,” dice Mohammed, “quindi abbiamo fondato delle ‘case della donna’, dove donne che subiscono minacce possono trovare rifugio.” Oggi ne esistono dieci nei vari angoli dell’Iraq, e accolgono quasi una cinquantina di donne e i loro figli. “Sono posti in cui le donne vengono protette, ma anche istruite. Sono diventate delle scuole di femminismo.”

A Baghdad, nella sede centrale, per un’ora a settimana, si può assistere ad una lezione sulle teorie femministe. In più, l’organizzazione produce anche i propri mezzi di informazione, pubblicando un giornale e trasmettendo una radio. Entrambi si chiamano al Mousawat (“la parità”). “Dal 2014 il governo cerca di farci chiudere la radio, utilizzando ogni volta scuse diverse,” mi spiega Mohammed. Prima la registrazione era incompleta, poi il permesso non era adatto – poi si sono visti imporre tasse altissime. “Avevamo fatto una campagna contro il Ministero della Giustizia e la legge Ja’fari, e a loro non è piaciuto.” (La legge Ja’fari avrebbe spostato l’età minima perché una ragazza si potesse sposare diciotto anni a nove, ed avrebbe legalizzato lo stupro all’interno di un matrimonio, fra altre cose; non è stata approvata dal parlamento.) “E quindi è dal 2014 che negoziamo con loro. Ma andiamo avanti.” Durante l’intervista, Mohammed ripete questa frase più volte: “Andiamo avanti,” nonostante tutto.

Mohammed non ha una risposta quando le chiedo cosa può cambiare la situazione. “Noi, le persone più progressiste, stiamo cercando le risposte. Ci stiamo lavorando. Ma anche dopo quindici anni di lavoro, di organizzazione e di istruzione, il potere che abbiamo è nulla in confronto a quello che hanno loro,” dice alludendo ai gruppi militari che controllano de-facto il paese. “Ma continuiamo. Non abbiamo paura, siamo oltre il momento in cui abbiamo paura. Possiamo farcela, ma ci vorrà del tempo. Noi andiamo avanti.”


In copertina: Yanar Mohammed durante una fiaccolata, via Facebook.

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