Dall’inizio dell’anno abbiamo seguito l’escalation del fenomeno dei roghi in tutta Italia. Anche quelli esplosi a Milano negli ultimi due giorni fanno parte della stessa catena di eventi.
Nei quartieri a nord ovest di Milano da questa mattina si sente un forte odore di bruciato nell’aria. Negli ultimi due giorni hanno preso fuoco due depositi illegali di stoccaggio rifiuti: durante la notte tra domenica e lunedì al quartiere Bovisasca, poi nel comune di Novate. Ieri, l’assessore all’ambiente Marco Granelli ha fatto sapere che lo spegnimento del rogo avrebbe impiegato tutta la giornata di lunedì, e di tenere nel frattempo chiuse le finestre di casa. A mezzogiorno di martedì, Granelli ha ribadito la gravità della situazione in un lungo post su Facebook:
Per ora si conferma l’indicazione alla popolazione che abita nelle vicinanze di tenere le finestre chiuse, di sostare il meno possibile all’aperto, non mangiare verdura o frutta prodotta nell’area. ARPA infatti ha posizionato i rilevatori e nei prossimi giorni avremo le analisi dell’aria, ma è chiaro che evidenzieranno valori problematici nei giorni dell’incendio, per poi diminuire drasticamente appena spento: importante che tale situazione duri poco tempo. Il fuoco, nonostante l’intensa e instancabile attività dei VVFF, continua a divampare e la massa di rifiuti che lo alimenta è notevole.
Su the Submarine abbiamo seguito da vicino il fenomeno dei roghi di rifiuti, che dall’inizio dell’anno ha subito un’escalation preoccupante in tutta Italia.
Prima dell’estate abbiamo curato un elenco il più possibile esaustivo di tutti i casi registrati dalla stampa locale, contando almeno 100 roghi solo nel mese di maggio. Nella maggior parte dei casi, a questi episodi viene data scarsa rilevanza sulla cronaca nazionale. Stavolta è diverso: i roghi sono avvenuti nella città metropolitana di Milano, con effetti ben visibili a un largo numero di persone. Questo non vuol dire, però, che sia un episodio radicalmente diverso dagli altri.
Anche questi ultimi roghi fanno parte infatti della stessa catena di eventi, che ha tappe e cause ben precisi. Da circa un anno, infatti, la Cina ha fermato le importazioni di rifiuti plastici, creando grossi problemi di smaltimento in tutto il mondo — non fa eccezione l’Italia, dove la gestione dei rifiuti è gravemente insufficiente sia dal punto di vista della qualità che della quantità.
Il nostro paese si è sempre affidato all’esportazione verso la Cina e soprattutto agli inceneritori, affidandosi a queste strutture come cardine della propria filiera di smaltimento. Il ministro dell’ambiente del governo Gentiloni, Gianluca Galletti, e i suoi predecessori, sono sempre stati convinti sostenitori sostenitori di questi impianti — nonostante questa politica fosse insostenibile già nel 2007, quando la direttiva Ue 98/2008 indirizzava verso una politica a sfavore degli inceneritori, indicando come prefereribili gli impianti di riciclaggio e compostaggio.
È sempre esistita in Italia una filiera di smaltimento marcia, in cui i rifiuti non vengono gestiti come si dovrebbe ma vengono fatti scomparire da qualche parte. Non sboccando più all’estero, i rifiuti che transitano per questa filiera vengono stoccati nei capannoni e dati alle fiamme. I luoghi scelti per i roghi sono spesso capannoni nelle zone industriali, ma anche stabili abbandonati di piccoli paesi — se scoppia un incendio in un paese piccolo non se ne occupa un quotidiano nazionale. Spesso i rifiuti vengono anche smistati in piccoli lotti e dati alle fiamme ai margini delle strade.
Va fatto notare che non sempre si tratta di rifiuti speciali: spesso è ordinaria raccolta urbana per cui non ci sono impianti di riciclaggio e compostaggio appropriati.
Negli impianti costruiti bene e all’avanguardia, che comunque sono presenti sul territorio italiano, finiscono spesso anche i rifiuti che non riescono a essere smaltiti altrove. Come ci spiegava Claudia Mannino a gennaio, al Nord ci sono più impianti di compostaggio che al Sud: così si crea un flusso di rifiuti che risale la penisola, ma quelli che non riescono a essere smaltiti hanno buone probabilità di finire bruciati. È noto il caso del 2008, quando a Figino, all’epoca uno degli inceneritori più avanzati d’Italia, era finito l’indifferenziato di Napoli, e vennero bruciati anche rifiuti pericolosi come pile e apparecchiature elettroniche.
L’Italia è terribilmente indietro rispetto all’Ue, anche a livello di consapevolezza diffusa: deve essere fatto passare il messaggio per cui i rifiuti devono essere differenziati tutti, e pochissimo deve finire nelle discariche o negli inceneritori. Va anche fatto un passo ulteriore perché il solo riciclaggio non basta più, o non è comunque una soluzione definitiva. Bisogna cercare di ridurre al massimo i rifiuti provenienti dalle zone urbane, sostituendo ai materiali di imballaggio materiali immediatamente smaltibili, come le bioplastiche, riciclabili nell’organico.
Come spesso accade nel nostro paese, però, perché qualcosa cambi serve che venga percepita un’emergenza.
Di solito, ufficialmente nella filiera va tutto bene e nessuno si lamenta — anche se, a guardare da vicino, ci si accorge che spesso ci si muove ai limiti del legale o direttamente nell’illegalità. Siccome non c’è la struttura o le condizioni per fare le cose per bene, i rifiuti vengano gestiti male. Servirebbe un’organizzazione di ripensamento e riorganizzazione di tutta la filiera, oltre che una mappatura dei flussi di rifiuti per poi decidere come gestirli.
Una “emergenza rifiuti” è utile per i gestori: in questo modo si possono ottenere svincoli dalla normativa ordinaria, per poter gestire i rifiuti con parametri straordinari — d’altronde, è in gioco la sicurezza la popolazione. In questo modo si riesce a fare legalmente ciò che di norma sarebbe illegale. Per questo urlare all’emergenza sta diventando la normalità, anche se l’emergenza dovrebbe essere qualcosa di unico e difficile da promulgare.
Ieri il ministro dell’ambiente ha dichiarato che “anche la Lombardia è Terra dei fuochi.” Il termine Terra dei fuochi è stato reso celebre più di dieci anni fa da Gomorra, in cui Roberto Saviano raccontava anche la gestione criminale dei rifiuti da parte della camorra. Il ministro Costa ha ripreso questo termine per il suo decreto. Costa ha definito il proprio operato, forse in modo precoce, migliore di quello di tutti i suoi predecessori. Al momento della sua entrata in carica, sulla sua figura erano riposte grandi speranze. Finora però ha varato normative minori. Il suo ministero sarà ricordato anche come quello in cui nel decreto Genova è stata inserita una norma che consente di aumentare fino a venti volte la dispersione di fanghi di idrocarburi in agricoltura.
Un problema di questi incendi che, finora, non sta venendo preso in considerazione però non è nell’aria ma nel suolo: mentre per l’aria ci sono dei limiti di sicurezza, per il suolo ancora non ci sono. E quindi quando si verificano più incendi nella stessa zona, anche se l’aria rimane al di sotto della soglia di sicurezza, gli inquinanti si accumulano nel terreno e raggiungono delle concentrazioni pericolose — che però non sono censite, e per le quali non esistono dei limiti normativi. Per questo servirebbe una legge sulla tutela del suolo. Vedremo se Costa riuscirà a essere in questo “migliore dei suoi predecessori.”
Alla stesura di questo articolo ha collaborato Tommaso Sansone.
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