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Il regista messicano torna sugli schermi per raccontare una storia di solitudine e di amore silenzioso, ambientata nel quartiere della sua infanzia a Città del Messico.

Una strana inquadratura fissa di un pavimento lentamente inondato di acqua e sapone, come una risacca; un aereo che piano piano attraversa il cielo; tutto in bianco e nero, con scritte gialle. Era cominciato tutto così, con il teaser diffuso dal regista messicano il 25 luglio scorso:

L’annuncio della regia di Cuarón, il titolo semplice e pulito, anticipavano la volontà di
raccontare un contesto ben preciso, un mondo a parte e lontano: il Messico degli anni Settanta. Il potenziale estetico e narrativo di ROMA era chiaro fin da subito, e lo rendeva uno dei film più attesi del Festival di Venezia. Provo a riportare l’impressione di bellezza accecante che ho provato per la cura registica e fotografica del film, sotto cui si cela una grande storia di famiglia, di amore e di solitudine.

La regia, i ricordi

Vale la pena ricordare chi sia il regista, Alfonso Cuarón, un tipo non troppo prolifico di cui ogni tanto ci dimentichiamo. È quello di Gravity (con cui ha vinto l’Oscar alla miglior regia), I figli degli uomini e Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Che si contraddistinguono, rispettivamente, per la tecnica al suo massimo potenziale, utilizzata per creare una tensione opprimente nello spettatore; per l’uso della camera a mano come strumento destabilizzante, che ci catapulta senza preavviso in una storia distopica di estrema urgenza; per l’utilizzo di toni cupi, utili a rinvigorire una saga che rischiava di essere destinata solamente a un pubblico molto giovane. In ognuno di questi film, molto diversi tra loro, Cuarón ha spinto al massimo le proprie scelte stilistiche e narrative, fornendo un’impronta registica molto ben definita e cucita su misura alla storia da raccontare. Un regista da studiare, perché, pur avendo fatto anche film “commerciali,” punta sempre a spingere il linguaggio cinematografico al meglio delle sue capacità. Insieme ad Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro fa parte dei “Tres amigos,” i registi messicani che hanno vinto quattro degli ultimi cinque Oscar per la Miglior regia.

Tornando in qualche modo alle origini della propria carriera (recuperate il folgorante Y tu mama tambien), con ROMA Cuarón ci parla apertamente di sé e del suo paese. Il titolo, infatti, è il nome del quartiere di Città del Messico in cui è cresciuto. ROMA segue le vicende di una giovane domestica indigena di origine mixteca, Cleo, che lavora per una piccola famiglia borghese: Sofia, la madre, deve fare i conti con le prolungate assenze del marito, mentre Cleo si occupa dei quattro figli, che ama come fossero i suoi. Cuarón è partito dal ricordo che conservava della sua bambinaia, per costruire un’ode al matriarcato che lo ha cresciuto, in un paese in preda a forti tumulti sociali —­ la milizia sostenuta dal governo si scontrava di continuo con gli studenti in manifestazione.

Questa volta, dunque, il suo talento visivo doveva applicarsi all’esigenza di raccontare i propri ricordi, la propria infanzia, e la scelta è caduta su un bianco e nero digitale che brilla di luce propria: in alcuni momenti ci si sente veramente accecati dalla bellezza dell’immagine, costruita per sembrare una finestra sui cassetti della memoria. Una finestra che viene aperta con delicatezza, con lunghe carrellate che svelano gli spazi e introducono i personaggi con pazienza, osservandoli. Fin dall’acqua che investe il pavimento nei primi frame, dall’aereo che attraversa il cielo, il film è una lenta contemplazione della memoria. Questo vuol dire fare una “regia”, scegliere un punto di vista chiaro, fornire un’interpretazione visiva di una storia.

Fin dall’acqua che investe il pavimento nei primi frame, dall’aereo che attraversa il cielo, il film è una lenta contemplazione della memoria.

In ROMA Cuarón fa grande uso dei piani sequenza, per creare un tipo di racconto “oggettivo,” che guarda ai personaggi con una certa distanza. La macchina da presa non si “intromette” mai nella scena, lasciando molta importanza ai personaggi, agli attori, liberi di muoversi senza essere costretti in primi piani. Allo stesso tempo, queste inquadrature larghe e di lunga durata servono a descrivere un contesto sociale, una scena dove nessun personaggio è molto più importante di un altro.

La preparazione del set ha richiesto moltissimo tempo: durante la prima conferenza stampa, Cuarón ha spiegato che lo stile visivo “è stato costruito partendo dai dettagli, mentre di solito si fa il contrario,” a testimonianza di quanto fosse importante per lui avere degli elementi, per quanto piccoli, che gli ricordassero in maniera molto chiara il mondo che aveva vissuto quasi cinquant’anni prima. La cura del bianco e nero è stata poi fondamentale per costruire una “visione” contemporanea e lucida sul passato: nessun look nostalgico, nessuna ombra lunga come negli anni Quaranta, ma un semplice utilizzo della scala dei grigi per veicolare diverse emozioni allo spettatore.

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L’inizio del film mi ha confermato subito il suo potenziale seduttivo. La grazia del bianco e nero, la quasi totale assenza di musica, le lunghe carrellate che descrivono gli spazi in cui si svolge la storia, i cassetti della memoria di Cuarón: per quasi tutta la prima metà, il ritmo e lo stile ti ipnotizzano. ROMA è uno di quei film da cui si potrebbero estrarre decine di magnifici quadri, pieni di dettagli e significato, in grado di lasciare un segno profondo. Ogni tanto mi sono chiesto se non fossi di fronte a una mostra di Salgado.

ROMA è uno di quei film da cui si potrebbero estrarre decine di magnifici quadri, pieni di dettagli e significato, in grado di lasciare un segno profondo.

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Solo più tardi si comincia a fraternizzare con la fragilità dei personaggi, con l’universo emotivo che stiamo esplorando. ROMA è un film con una storia forte, con un arco narrativo preciso, benché un po’ compassato nella prima parte. Non è certo un mero esercizio di stile visivo. Le immagini, che fluttuano dolcemente come ricordi nei nostri occhi, delineano il ritratto intimo della solitudine di una giovane donna. Una domestica, che con il proprio amore silenzioso tenta di mantenere in equilibrio un’intera famiglia.

Cleo: amore e solitudine

ROMA è anche un’esplorazione della gerarchia sociale del Messico, secondo Cuarón “un paese in cui classe ed etnia sono stati finora intrecciati in modo perverso.” Il film è chiaro ancora prima dei titoli di testa, con una scritta a nero che indica che i sottotitoli senza parentesi saranno per lo spagnolo, mentre quelli tra parentesi quadre per i dialoghi in mixteco, una lingua indigena sempre meno diffusa, di cui si stima esistano circa 50 varianti dialettali. È da qui che bisogna partire per inquadrare la condizione di Cleo. Il lavoro di bambinaia era più che dignitoso per una giovane donna indigena, disposta a lottare silenziosamente e in ogni modo pur di mantenere il contesto familiare in equilibrio. Cleo è letteralmente colei che “pulisce la merda della famiglia,” azione che viene rappresentata ironicamente dal lavaggio dello sterco del cane nel cortile; Cleo accudisce e comprende i bambini, mettendosi sul loro stesso piano, come nella scena che ha dato forma al poster di lancio del film. “Soy muerta” dice, imitando il gioco di uno dei “suoi” bambini. E in effetti per loro sarebbe disposta a rischiare anche la vita.

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I personaggi intorno a Cleo ne illuminano la solitudine. Il suo “fidanzato,” Fermin, è invasato di arti marziali tanto da sfiorare il ridicolo (compare, nudo come un verme, in una delle due scene un po’ assurde del film). Un ragazzo decisamente poco affidabile, che prenderà una posizione estrema nel momento di maggiore tensione del paese. La bontà della scrittura di Cuarón (regista, sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore) si vede anche nella caratterizzazione di questo personaggio, che rimane una presenza fortemente negativa, ma possiede comunque una sua profondità e contribuisce a raccontare le difficoltà delle giovani generazioni messicane di quegli anni: in un fugace attimo di confessione, Fermin rivela a Cleo di essersi dato alle arti marziali come ragione di vita, salvandosi da un quartiere difficile.

Sofia e suo marito, dal canto loro, non sono minimamente riconoscenti per la grande mole di lavoro che Cleo si sobbarca: il marito, addirittura, arriva a trattarla quasi come una sconosciuta in uno dei momenti chiave del film. E proprio Sofia chiarisce la condizione sua e di Cleo con una battuta decisiva: “Siamo sempre sole, lo sai?”. Sofia osserva la sempre più probabile separazione dal marito senza poterci fare realmente qualcosa.

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Ricapitolando: Cleo deve tenere a galla la barca senza che lo sforzo le venga veramente riconosciuto, assumendosi responsabilità che non dovrebbero essere sue e senza trovare un vero appoggio al di fuori della famiglia, se non sporadicamente nella domestica Adela, sua collaboratrice. In più, deve affrontare un forte conflitto personale, che preferisco evitare di spoilerare ­— lì sì, Sofia le darà una mano, ma rimane un gesto isolato che non muta la sua condizione generale.

Intorno a lei, acqua, terra e fuoco agiscono come monito naturale del contesto storico, creano una sensazione di instabilità e pericolo: un terremoto in ospedale e un incendio durante la cena di capodanno si sommano alle rivolte e alla spaccatura che si crea nella famiglia di Cleo. È magnifico vederla muoversi in silenzio in questo quadro. Sembra che nulla possa distoglierla dalla sua missione più intima: costruire un nuovo senso di amore e di solidarietà, mentre tutto brucia e il cambiamento del paese si fa sempre più tumultuoso. L’amore per questo film nasce qui, dal contrasto tra la fragilità e la determinazione di Cleo. Ogni passo che compie da metà film in poi, ci porta lentamente a comprendere la sua natura, la sua devozione totale alla famiglia, conuna dignità eccezionale. Fino ad arrivare a una delle scene madre del film, quando praticamente stavo affogando nella poltrona.

Ho sentito di vivere un arco emotivo simile a quello di Sofia, che realizza solo nel momento più drammatico l’importanza di Cleo per lei e i suoi figli. Il fascino estetico di ROMA sarà ampiamente celebrato — è la prima caratteristica del film che mi ha colpito. La seconda parte, però, è capace di coinvolgere in maniera molto profonda, rivelando tutta la forza e la dolcezza di un personaggio unico, impossibile da dimenticare. Interpretato, tra l’altro, da un’attrice non professionista (o forse da oggi sì).

Cuarón ha detto che gli elementi fondanti di ROMA sono tre: la sua memoria per scoprire come costruire il film, il piano sequenza per rappresentarlo, e Cleo. I primi due sono elementi di brillantezza creativa e registica di certo non comuni, ma con la sua protagonista Cuarón ha forse lasciato una traccia indelebile nelle menti e nel cuore di chi vedrà il suo quartiere ricostruito sul grande schermo, di chi vedrà il suo Messico nel pieno del cambiamento, di chi vedrà ROMA.


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