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Una delle voci della lunga lista di 52 cose da fare per scrivere questo mio blog su New York dichiara che ci sono delle cascate d’acqua segrete a Central Park.

Ora, mi pare evidente che questa affermazione abbia bisogno di qualche virgoletta, senza nessuna volontà di mettere in dubbio le buone intenzioni di chi produce collezioni di consigli sulle migliori esperienze newyorkesi, per rallegrare i tour urbani di turisti e locali.

In primo luogo, bisogna definire cosa si intende per “cascate d’acqua,” che per quanto io ammetta di conoscere questa labirintica città meno che niente, sono abbastanza sicura che di cascate d’acqua come le intendo io a Central Park non ce ne siano. Alla parola cascata la mia mente produce immagini grandiose di precipitazioni d’acqua della stazza delle cascate del Niagara. Sono cosciente che queste ultime siano particolarmente imponenti, ma anche volendo considerare esemplari molto più piccoli, la generale mancanza di montagne all’interno di Manhattan, e il fatto che, per quanto il parco sia grande, si tratta pur sempre di un parco in mezzo a una città, mi fa dubitare che il termine sia dei più adatti. Al massimo si potrà parlare di cascatelle. Ad essere più realistici, di un fiumiciattolo che a tratti incontra qualche inevitabile dislivello.

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In secondo luogo, Central Park sta a New York come la Torre Eiffel sta a Parigi, e il Duomo a Milano, il Colosseo a Roma e una serie di altri luoghi cardinali che al momento non mi vengono in mente. Di media attira qualcosa come 40 milioni di visitatori l’anno, ed è apparso in più di 300 film. Che un tale parco possa ancora avere degli angoli segreti, per quanto affascinante come idea, è molto poco credibile.

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Posso capire, tuttavia, che in una città piena esploratori urbani affamati di natura, in quanto quasi completamente alieni ad essa, un fiumiciattolo possa diventare una cascata, e l’idea di andare in un luogo vagamente sconosciuto possa apparire irresistibile. Neanche due settimane fa, d’altra parte, ho pagato quindici dollari per andare a fotografare quattro ciliegi in fiore nei giardini botanici di Brooklyn, ed ero in abbondante compagnia.

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Per imbattersi nel segreto di Central Park è consigliabile entrare nel parco dal suo lato ovest, altezza 102esima strada, dove subito si incontra un laghetto piuttosto bucolico. Il laghetto è pragmaticamente denominato “The Pool,” e da esso parte il ruscello “The Loch,” che srotolandosi verso nord-est incontra tutti i dislivelli necessari per produrre le tanto discusse cascatelle. Si tratta di una passeggiata davvero piacevole, e relativamente solitaria, soprattutto considerando che, poche miglia più a sud, un altro laghetto più conosciuto ai turisti diventa, nelle giornate di sole, molto simile a una pista di autoscontri per barche a remi. Quest’ultimo laghetto, con il nome più dignitoso di “The Lake,” è un ottimo luogo per osservare le varie sfumature di infelicità e frustrazione che si possono dipingere sul volto di un rematore in una pozza sovraffollata, quando ad aprile improvvisamente ci sono trentacinque gradi. “The Pool,” abbastanza a nord di Manhattan per sfuggire alle rotte della maggior parte dei turisti, e privo di barche a remi, è tranquillo, piacevole, grazioso. In una giornata di sole, a primavera appena esplosa, giornata oziosa, caffelatte ghiacciato in una mano, quarantacinque minuti di metropolitana, un libro di Jane Austen letto a metà, arrivarci è come il palpabile piacere di scartare un regalo inaspettato. Central Park, così verde e così grande, accoglie i suoi newyorkesi sfiniti dai rumori, dai doveri, dall’inverno, e li lascia sciogliere sui propri prati, per il lusso di un pomeriggio al sole. E il sole, oggi, era gentile.

Ho seguito il sentiero delle cascate, e per brevi, paradossali, secondi, ho creduto di essere fuori dalla città. Persino il rumore mi pareva sfumato in sottofondo. Una signora vestita di bianco prendeva il sole seduta su una sedia da campeggio, stendendo i piedi su un largo telo rosso scuro. Una coppia si inseguiva lungo il fiumiciattolo, sostando di panchina in panchina.

Togliendomi le scarpe, e premendo le piante dei piedi contro l’erba, mi sono chiesta perché io venga così raramente a Central Park. La mia coinquilina, 9 anni di New York o più, una veterana quasi ormai, mi ha ricordato, storcendo il naso, che è lontano, e sovraffollato. Meglio Prospect Park, a Brooklyn. E ha ragione. Ma ha ragione anche il mio altro coinquilino, l’inglese qui da tre mesi appena, che alla domanda su cosa rende così speciale Central Park risponde, compiaciuto: è la fuga orizzontale e verde alla città verticale e nera.


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