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New York 52 è il viaggio di Bianca Giacobone attraverso la New York multiculturale del ventunesimo secolo: una collezione di momenti cittadini, una piccola guida turistica, il tentativo di andare oltre la superficie, un quadro incompleto ma coinvolgente della metropoli più famosa del mondo.

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Racconto di una serata iniziata con le migliori intenzioni, ma finita senza karaoke.

Trovare un karaoke a New York pronto ad accogliere le ambizioni canore di un gruppo di ventenni in uscita il venerdì sera non è oggettivamente difficile. Trovarlo poi a Koreatown, dove i locali sono impilati uno sull’altro come cubetti di lego, e la scritta karaoke lampeggia per la strada ripetendosi almeno un trentina di volte, dovrebbe essere veramente facile.

Ciò detto, non è improbabile che il gruppo di ventenni in questione, in uscita il venerdì sera in una delle prime notti primaverili di Manhattan, perda di vista i propri obiettivi, nonostante tutte le buone intenzioni di andare al karaoke.

Succede che si inizia la serata in qualche bar nei dintorni di Union Square. Dopo un paio di drink il proposito già inizia a vacillare. Per mezzanotte i primi disertori  prendono le vie di casa. Verso mezzanotte e mezza l’idea si riaccende, e ci si ammassa su un paio di taxi gialli, direzione Koreatown.

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La via scintilla di scritte la neon, qualcuno dichiara con ingenuo ottimismo che dopo il karaoke si può andare a mangiare in uno dei barbecue coreani, e poi a sudar via la sbronza in quelle terme che non chiudono mai i battenti (dopo una semi approfondita ricerca Google, quali siano queste terme rimane un mistero).

L’unico membro del gruppo che si è preso la briga di scegliere un locale tra gli innumerevoli che offrono il karaoke fa strada a tutti gli altri, e dopo un breve viaggio in un ascensore fatiscente ci si ritrova nel mezzo di un affollatissima discoteca su due piani, fosforescente di luce rosa. A questo punto la probabilità rimasta che si finisca effettivamente, tutti insieme, in uno dei cubicoli riservati al karaoke precipita vertiginosamente.

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La squadra si disperde, sgomitando tra le camicie bianche dei ballerini, e inciampando nei tavoli riservati ai bevitori di champagne. Per un breve e sorprendente momento ci si rincontra tutti al piano di sopra, a trattare con un addetto karaoke dei prezzi del cubicolo. 80 dollari per un’ora, oppure una cifra ben al di sopra dei 200 se a quell’ora si vuole aggiungere una bottiglia di tequila, o vodka, o quant’altro. Una voce protesta che questo karaoke costa troppo rispetto a tutti gli altri karaoke dove non siamo andati. Un’altra dice, prima andiamo a ballare, magari dopo.

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E così alla fine si balla, o meglio si ondeggia con sorrisi ebeti a ritmo della musica discutibile, visto che il sovraffollamento della pista impedisce qualsiasi altro movimento. Poi si son persi di vista tutti i volti conosciuti, e si esce all’aria aperta, e piove, e ci si trova sulla metropolitana per tornare a casa, e ci si tira gomitate a vicenda per evitare di incorrere nel rischio principale di qualsiasi ritorno a casa notturno a New York: addormentarsi sul treno e svegliarsi dall’altra parte della città. La serata è giunta al termine, e come prevedibile al karaoke non ci si è mai arrivati.

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Sono sempre rimasta perplessa riguardo alla popolarità del karaoke. L’idea di rinchiudersi in una stanza per bere abbastanza alcolici da annacquare l’inevitabile disagio e mettersi gioiosamente in imbarazzo davanti ai propri amici, cantando canzoni che non si ha l’abilità di cantare, mi pare più vicina a un incubo che a un modo piacevole per passare un venerdì sera. Per non parlare di quei karaoke che sostituiscono la stanza privata con un palco pubblico, e il gruppo di amici selezionati con una folla di sconosciuti. Ma devo ammettere che non ho abbastanza esperienza di karaoke per poter giudicare.

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La prima volta che ne ho provato uno è stata a Praga, durante una confusa festa Erasmus, e devo aver cantato “Volare” di Modugno accompagnata dalle urla di almeno altre venti persone. La seconda volta è stata in un oscuro sport bar a Ridgewood, nel Queens, dove per fare piacere all’amica che gestiva il karaoke mi sono lanciata in un improbabile duetto sulle note di “Non succederà più”, di Celentano e Claudia Mori (affascinante enigma come questa canzone sia arrivata nel computer di uno sport bar del Queens). La terza volta doveva essere quella in cui si facevano le cose per bene, nei karaoke veri di Koreatown, ma quel che è successo ve l’ho già raccontato.

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In compenso, ho trovato sul New York Times una storia da commedia noir ben più interessante dei miei falliti approcci al mondo del karaoke. Pare che nelle Filippine, dove il karaoke è popolarissimo, come in gran parte dell’Asia (non a caso qui a New York si va a cercarlo a Koreatown), cantare “My Way” di Frank Sinatra sia una scelta molto pericolosa. Secondo i giornali locali, più di mezza dozzina di persone sono state uccise per aver fatto questa scelta musicale, tanto che gli episodi sono stati raccolti nella sottocategoria del crimine di “My Way killings,” gli assassinii di “My Way.” Verità o leggenda, le ragioni della pericolosità della canzone sono dibattute — c’è chi chiama in causa l’arroganza del testo, chi la scarsa abilità dei cantanti, chi la violenza diffusa nel Paese — ma molti karaoke bar, per andare sul sicuro, hanno eliminato la canzone dal repertorio.

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Koreatown ha centro in un segmento della 32esima strada a Manhattan, tra 5th e 6th Avenue. Ci si può andare per mangiare coreano, cantare al karaoke e cercare le misteriose terme aperte ventiquattr’ore su ventiquattro. Per ora, come avrete capito, non ho fatto nessuna di queste cose ma sono sicura che ne valga la pena.

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