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Come uno dei film meno apprezzati di Martin Scorsese racchiude invece una triste premonizione sulle strategie di guerra moderne e sull’uso dei videogame per l’addestramento militare.

Alla fine degli anni Settanta Martin Scorsese è alle strette per colpa di una dipendenza che sta lentamente minando le basi della sua carriera e corrompendo la sua visione autoriale. Nel 1978 The Last Waltz, film concerto dedicato all’ultima apparizione dal vivo del gruppo The Band alla Winterland Arena, viene presentato dal regista a Cannes, ma la sua voce si sta affievolendo per colpa della droga. “No more coke, no more interviews,” afferma scherzando, dopo che le sue provviste per l’evento festivaliero si sono esaurite.

Ma se la nuova decade passerà alla storia come l’età più prospera per i traffici del cartello di Medellin, per Scorsese si rivela il periodo della rinuncia e del ritrovato successo: grazie all’aiuto dell’amico e collega Robert De Niro, il regista taglia i ponti con la cocaina e nel 1980 gira Toro Scatenato, film che ancora oggi racchiude i suoi canoni estetici e cinematografici. Ed è solo l’inizio. Seguono Re per una notte (1983), rappresentazione delle illusioni artistiche di un signor nessuno nella società dei mass media, Fuori Orario (1985), odissea onirica tra gli stratificati spazi di New York, e infine Il colore dei soldi (1986), sequel del cult Lo Spaccone.

In quest’ultimo, Paul Newman è ancora Edward “Fast Eddie” Felson, l’asso del biliardo che nel primo capitolo aveva battuto “Minnesota Fats,” ma venticinque anni dopo, quando si svolge il film di Scorsese, Felson ha chiuso nell’armadio la stecca per dedicarsi a una vita meno adrenalinica e più monotona. Sarà la figura di Vincent, giovane promessa del biliardo interpretata da Tom Cruise, a risvegliare in lui il fuoco del gioco e delle scommesse.

La storia del film si basa in parte sul romanzo omonimo di Walter Tevis (anche autore de Lo Spaccone), ma Scorsese, non convinto dall’impostazione del libro, decide di affidare la sceneggiatura a Richard Price, autore ancora poco conosciuto tra gli uffici di Hollywood. Price sceglie di cancellare i legami di Felson con il passato e concentrarsi sul rapporto generazionale tra maestro e allievo.

Riguardandolo si capisce come mai Roger Ebert fu così lapidario nei confronti della pellicola: il ritmo non regge il confronto con l’originale, Paul Newman fa da balia a un Tom Cruise che sembra ancora a bordo dei jet di Top Gun e la regia non ha quel tocco caratteristico che Scorsese ha sempre fornito.

Uno scambio di battute tra Eddie e Vincent però colpisce per il suo carattere profetico, che ovunque ci si aspetterebbe di trovare tranne che in un film sul biliardo.

Eddie ha visto in Vincent la possibilità di fare soldi e di trasmettere il suo talento a qualcuno che lo merita, prima però vuole capire chi ha davanti. I due sono in un bar a chiacchierare, “nove palle non è difficile, sai cos’è difficile? Stocker” afferma con la sua faccia da schiaffi Tom Cruise. “Cos’è?” chiede Newman. Stocker è un videogame arcade prodotto dalla Sente Technologies, in cui il giocatore – che ha tra le mani il volante di un cabinato – deve guidare una macchinina in veduta aerea (in stile Grand Theft Auto 1997) attraverso un viaggio coast to coast americano.

“Si possono fare soldi giocando a Stocker?” chiede Eddie. “Senti cosa si può fare con Stocker: tra dieci anni potrò entrare a West Point [l’accademia militare degli Stati Uniti n.d.r.], ecco a cosa serve quel gioco. Si riduce tutto a riflessi da videogame, carri computerizzati, guerre stellari, insomma uno che va forte a Stocker tra dieci anni entra di sicuro a West Point.”

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La frase pronunciata da Tom Cruise fa riferimento alla pratica militare, nata agli inizi degli anni Ottanta, dell’uso di videogame per addestrare le proprie truppe. Richard Price, durante la stesura della sceneggiatura, deve aver sentito parlare del progetto Bradley Trainer: il progetto dell’esercito degli Stati Uniti per creare un videogame in grado di simulare le dinamiche di uno scontro armato.

Alla nota casa videoludica Atari era stato infatti commissionato un sistema di gioco basato sui meccanismi di controllo dell’artiglieria. Il cabinato riprendeva in parte la programmazione di Battlezone – un videogioco arcade basato sul combattimento tra carri armati che nel 1980 aveva riscontrato enorme successo – applicando qualche modifica per rendere meno ludico il sistema. “Doveva essere un dispositivo di addestramento casuale per veicoli da combattimento di fanteria, quindi il giocatore sarebbe stato in grado di riconoscere le sagome degli amici piuttosto che i nemici.” Queste le parole di Ed Rotberg, programmatore di Bradley Trainer, nonché ideatore di Battlezone.

Il primo tentativo dell’esercito statunitense non ebbe però successo e il progetto in collaborazione con Atari non superò mai la fase di demo, anche se alcune voci di corridoio del settore ipotizzano che il progetto sia stato poi affidato a una terza società per slegare l’Atari dalle stringenti regole che un contratto con la difesa americana imponeva. Il caso del Bradley Trainer apre comunque le porte a una serie di sperimentazioni per ibridare la formazione militare con il mondo dei videogiochi.

All’inizio degli anni Novanta il carro armato non è più il simbolo di supremazia militare, il conflitto via terra è sostituito dal controllo degli spazi aerei e il nuovo simbolo di questo cambio strategico sono i droni. Usati per la prima volta in modo non sperimentale durante la Guerra del Golfo, i droni si rivelano essenziali per la loro dualità: discreti nel monitoraggio di obiettivi sensibili e precisi nelle fasi offensive.

Dopo gli attentati dell’11 settembre, l’uso di droni da combattimento in zone di guerra viene applicato su larga scala dalle amministrazioni Clinton, Bush e Obama. Afghanistan, Pakistan, Somalia, Yemen, Iraq, Siria e tutti i paesi coinvolti nella guerra al terrorismo diventano terreno di sperimentazione per un conflitto che non è più tra uomo e uomo, ma tra uomo e macchina.

Oggi, dopo numerose inchieste, sappiamo che spesso l’addestramento o il reclutamento dei militari che operano i droni parte dal mondo dei videogame.

Nel 2014, la regista Tonje Hessen Schei ha prodotto DRONE, un documentario sui legami che l’industria militare ha con quella dell’intrattenimento. Il lavoro di Schei evidenzia la deumanizzazione dei meccanismi di guerra, e di conseguenza dei target proposti ai “piloti,” attraverso una componente ludica.

Anche Omar Fast, video artist israeliano, ha deciso di sottolineare con una sua installazione il legame tra droni e videogiochi. Il nome dell’opera è 5,000 Feet is the Best, perché 5,000 piedi è l’altitudine più adatta per l’utilizzo di un drone, e in una triste coincidenza la sua rappresentazione è straordinariamente simile al layout di Stocker, il gioco arcade citato da Vincent in Il Colore dei Soldi.

Oggi lo scambio nel film di Scorsese non è più una battuta alle spalle dei nerd da sala giochi, ma piuttosto l’eco di un’amara verità che ha impiegato più di vent’anni a realizzarsi. Richard Price, che allora era un giovane sceneggiatore, oggi è uno dei più influenti scrittori di Hollywood, in grado di rappresentare le ipocrisie e storture della società americana attraverso i suoi personaggi e quella battuta, così apparentemente fuori luogo in un film sul biliardo, ne è la prova.


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