New York 52 è il viaggio di Bianca Giacobone attraverso la New York multiculturale del ventunesimo secolo: una collezione di momenti cittadini, una piccola guida turistica, il tentativo di andare oltre la superficie, un quadro incompleto ma coinvolgente della metropoli più famosa del mondo.
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Nel museo dei trasporti di New York c’è una targa che racconta che la maggior parte degli uomini che lavorarono alla costruzione della metropolitana, nei primissimi anni del XX secolo, erano immigrati italiani.
Dal 1900 al 1910 ne arrivarono negli Stati Uniti più di due milioni. Erano gli anni in cui New York cresceva a ritmo feroce, e la loro forza lavoro fu fondamentale.
Il “New York Transit Museum” sta a Brooklyn Heights, nella vecchia fermata della metropolitana di Court Street, che fu chiusa al pubblico nel 1946, e rimase abbandonata per diversi anni, prima di essere riconvertita a uso attuale. A seguire la lista che ho stilato per questo blog, avrei dovuto visitare una stazione della metropolitana abbandonata, e riconosco che definire abbandonata una stazione dove hanno aperto un museo non è semanticamente corretto. Eppure si potrebbe dire che il luogo, esiliato dal flusso costante di treni e gente e rumori che collega tutte le altre stazioni ancora in uso, ha un che di abbandonato. È stato spinto fuori dall’apparato circolatorio della città, è collaterale.
La metropolitana è l’apparato circolatorio di New York, è un’idea fondamentale della città. Ti porta ovunque, a qualsiasi ora, e di fatto non se ne può fare a meno.
Quando capita che una stazione chiuda per lavori, una sera o un weekend, si vedono passeggeri attoniti fissare i battenti serrati, increduli e incapaci per qualche secondo di concepire un metodo alternativo per rincasare. Si indicano le coordinate del proprio appartamento con il nome della stazione della metro di cui si fa uso tutti i giorni, e si possono distinguere gli abituè dai turisti dalla velocità con cui son pronti a strisciare la tessera ai tornelli, e dalla facilità con cui navigano il labirinto di scale, linee e tunnel.
I quartieri prosperano e deperiscono a seconda dell’affidabilità dei treni più vicini. La chiusura del tunnel della linea L per restauri, l’anno prossimo, ha gettato una buona parte del quartiere creativo di Bushwick nel panico. Ci sono lunghe e preoccupate discussioni tra gli abitanti su se sia il caso di trasferirsi o meno, e quanto dureranno i lavori, e toglierà tutto il sangue e l’ossigeno alla zona, questo taglio netto da Manhattan, oppure no, che due o tre anni non sono sufficienti per far deperire un luogo che è in lenta crescita da più di un decennio?
In un modo o nell’altro, la metropolitana è sempre parte dei pensieri dei newyorkesi. D’altra parte, ci si passa dentro una quantità considerevole di tempo. L’odore inconfondibile, i musicisti sulla piattaforma, le attese, lo stridio del treno sui binari sono parte fondamentale del corredo sensoriale della città. Nonostante i sempre più frequenti ritardi (il New York Times ha recentemente pubblicato un reportage sul precipitoso declino dell’efficienza del MTA) e lo straripio dei vagoni alle ore di punta, ci si adatta. La quantità di libri che leggo è aumentata di parecchio da quando mi sono trasferita qui. Ho conosciuta una volta una ragazza a cui il commute di due ore da Harlem a Bushwick per lavorare in un bagel shop — un’ora andare, un’ora tornare — non dispiaceva affatto, perché aveva tempo di leggere.
Ciò detto, ad essere sincera, la gita al “New York Transit Museum” per scoprire le origini e la storia di tutto questo non mi ha affascinato più di tanto.
Si capisce e si sente di più della metropolitana ad andare in giro tutti i giorni, che a osservare una fila di vagoni d’epoca dismessi, in mezzo a frotte di bambini esagitati.
Doveva essere una qualche vacanza ebraica, a giudicare dalla quantità di famiglie in abiti tradizionali, di padri barbuti, e di ragazzini con la kippah ben bilanciata sulla testa, nonostante si scalmanassero a destra e manca.
Mi ipnotizzo davanti a un video degli attentati dell’11 settembre, che lampeggia da una televisione anni 90. È parte di una mostra che celebra l’eroismo dei lavoratori del MTA, sempre pronti a essere al servizio della città anche quando c’è la catastrofe, l’uragano, l’alluvione, la tormenta. Un’ode all’eroismo all’americana. Guardo le strane immagini di Manhattan avvolta in una nuvola di fumo. Curiosamente, mi commuovo, e non tanto forse per la tragedia in sé, quanto per l’improvvisa, rara e umana comunione di gente che la tragedia crea in questa città altrimenti così separata in singoli individui.
La televisione successiva mostra un video su YouTube di una giornalista gocciolante d’acqua sotto le piogge battenti dell’uragano Sandy. Nel 2012 Sandy gettò parte di Manhattan in un blackout lungo una settimana. Le foto degli edifici con le finestre spente che si trovano su internet sembrano più che altro quadri surrealisti. Cerco di immaginare Manhattan tutta nera, la città che non dorme mai avvolta dal buio, con l’avvertimento che andare in giro dopo il calar della notte è sconsigliato e pericoloso. Mi viene difficile concepirla, come idea, tanto è paradossale, come un buco nero nel mezzo della città. E altrettanto paradossale, se non forse di più, l’idea di New York paralizzata senza metropolitana.
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