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in copertina, foto via Twitter, dalle proteste di ieri a Gaza

Negare oggi la divisione di Gerusalemme significa ribaltare la realtà delle cose, dimenticando che esiste una parte araba della città, con quartieri popolosi e caseggiati fatiscenti.

Al terzo venerdì di proteste in vista del settantesimo anniversario della Nakba, l’espulsione dei cittadini palestinesi da quelle che erano all’epoca, nel corso della guerra palestinese del 1948 le uniche aree urbane del paese, il conto delle vittime palestinesi sembra destinato solo a crescere. Il conteggio ufficiale, rilasciato dalle Nazioni Unite nella giornata di ieri, vede 32 palestinesi morti e più di 3000 feriti. Le manifestazioni, iniziate lo scorso 30 marzo sotto l’ombrello del nome “Grande marcia per il ritorno” — il ritorno dei rifugiati palestinesi bloccati da Israele — proseguiranno ancora per un mese, fino al 15 maggio. È impossibile insomma, immaginare in questo clima che le violenze vengano sospese: ancora ieri è stata uccisa un’altra persona, e il numero dei feriti è aumentato di 200.

È di due mesi fa la notizia che il Giro d’Italia, dopo l’ufficializzazione della grand départ da Gerusalemme dello scorso 18 settembre, vedrà partecipare per la prima volta nella sua storia una squadra israeliana. Gli organizzatori di RCS Mediagroup S.P.A, come ogni anno, hanno diramato la scelta delle quattro “wild cards” (inviti) da distribuire ai team non afferenti al circuito World Tour che potranno così prendere il via alla Corsa Rosa il prossimo 4 maggio. Proprio il giovedì prima del penultimo venerdì di manifestazioni, in quello che sarà indubbiamente il momento di massima tensione sul confine di Gaza.

Una di queste, come da pronostico, è stata consegnata nelle mani dei manager dell’Israel Cycling Academy, gruppo sportivo finanziato dal governo di Tel Aviv. Ai nastri di partenza ci saranno molto probabilmente anche i campioni israeliani sia in linea sia a cronometro, che garantiranno la presenza visiva della bandiera con la stella di David in tutte le tappe. Invito che invece non è stato “concesso” alla Nippo-Vini Fantini, impedendo a Damiano Cunego, amato ciclista italiano, di chiudere la propria carriera nella gara che lo ha visto vincitore nel 2004.

Concedere una “passerella” a Cunego avrebbe significato saldare i legami tra pubblico e organizzazione, rinfocolando nel tributo a un campione amato la passione presente e futura per il ciclismo. Sia chiaro, non si vuole intendere con quanto affermato prendere le parti della Nippo-Vini Fantini (team con sponsor italo-giapponesi) o, più in generale, di una squadra piuttosto che un’altra. Non si vuole ridurre la questione della Corsa Rosa in Israele a una guerra di casacche tra gruppi ciclistici concorrenti, ma si intende trattare motivazioni economiche e politiche generali.

Come molti appassionati sapranno non è una novità far iniziare il Giro d’Italia da uno stato estero: Grecia, Olanda, Belgio e Francia sono stati solo alcuni casi negli ultimi 15-20 anni. Funziona così: una provincia o una regione straniera presenta delle offerte per “attirare” la partenza della corsa, solitamente un cronoprologo e le prime due tappe in linea, di modo da avere poi un ritorno in turismo e in visibilità su scala mondiale durante i giorni dell’evento.

Un meccanismo che potremmo definire sostanzialmente economico, in cui di politico c’è ben poco, e che ha spesso danneggiato le regioni del Sud Italia, sempre più trascurate e marginalizzate nella planimetria ufficiale. In molti si stanno chiedendo, senza troppa ironia, perché continuare a chiamare la competizione “Giro d’Italia.” Nel 2018 gli organizzatori hanno scelto di partire da Israele, che ha sborsato, attraverso il proprio governo, la cifra record mai vista prima di 4 milioni di dollari. Esiste una particolare tradizione ciclistica in Terrasanta? No e mai, in ogni caso, la Corsa Rosa era partita fuori dall’Europa.

Nella trattativa con RCS si sono mossi, oltre al Ministro dello Sport, anche quelli del Turismo e degli Interessi Strategici dello Stato israeliano, elemento che rende evidente l’importante natura politica oltre che monetaria della questione. Come motivazione ufficiale a corredo dell’operazione, gli organizzatori hanno dichiarato di voler omaggiare Gino Bartali, uno dei più grandi ciclisti italiani di sempre, il cui nome è stato impresso sul muro d’onore del “Giardino dei Giusti tra le Nazioni” a Gerusalemme per aver salvato durante la Seconda Guerra Mondiale centinaia di ebrei italiani dalle persecuzioni nazifasciste. È tuttavia curioso notare come nessuna tappa dell’edizione del 2018 della Corsa Rosa transiti dalla Toscana, regione natale di Bartali e terra di grande passione e tradizione ciclistica.

Se si fosse voluto davvero celebrare il campione toscano, perché non organizzare un arrivo di tappa, una partenza o un passaggio simbolico nel suo paese d’origine nei pressi di Firenze?

Non appena è apparsa la planimetria ufficiale e completa del Giro 2018 alla fine dello scorso novembre, il governo israeliano, per bocca di alcuni suoi ministri, è subito insorto, minacciando di ritirare il cospicuo finanziamento monetario e quindi di far saltare le prime tre tappe. La feroce polemica è nata a causa del semplice utilizzo da parte degli organizzatori della dicitura “Gerusalemme Ovest” per indicare la partenza del cronoprologo. “Gerusalemme è una e indivisibile, non esistono Est e Ovest, ed è la capitale di Israele,” hanno ribadito tramite una nota congiunta gli esponenti dell’esecutivo, in spregio a tutte le convenzioni internazionali e alle risoluzioni dell’ONU.

https://twitter.com/Belal_Yaghi/status/984833020040445957

I vertici di RCS hanno risposto con un’arrendevolezza disarmante ammettendo l’errore, giustificandosi sostenendo che la definizione “Gerusalemme Ovest era priva di ogni valenza politica” e togliendo immediatamente il termine “Ovest” da tutti i materiali informativi riguardanti il Giro d’Italia 2018. Peccato che la “valenza politica” sull’intera vicenda ce l’abbia messa lo Stato di Israele, senza alcun tipo di remore ed esitazioni. Mai prima d’ora un paese estero ospitante la partenza della Corsa Rosa aveva “imposto” alla direzione della gara delle modifiche sulla terminologia della planimetria ufficiale.

Negare oggi la divisione della Città Santa significa ribaltare la realtà delle cose, dimenticando che esiste una parte araba di Gerusalemme, con quartieri popolosi e caseggiati fatiscenti, militarizzata e isolata dalla West Bank, nella quale scarseggiano per precisa volontà del governo israeliano servizi pubblici basilari come acqua corrente, rete fognaria e assistenza sanitaria, e sono presenti forti limitazioni alla libertà di spostamento delle persone.

Infatti, dal momento dell’occupazione di Gerusalemme Est (1967) e in seguito alla sua annessione formale da parte di Israele (1980), mai riconosciuta dalla comunità internazionale, l’amministrazione e l’erogazione dei servizi pubblici nella parte araba dipendono, di fatto, dall’autorità municipale israeliana, che, nel corso degli anni, ha fatto di tutto per rendere invivibile tale zona della città, di modo da spingere gli abitanti palestinesi ad andarsene con il fine di poter realizzare una capitale “unita” sotto il vessillo della Stella di David. Molti studiosi hanno parlato a proposito di “giudaizzazione” di Gerusalemme Est. Evidentemente questi problemi non riguardano i vertici di RCS, che, ingolositi da un lauto guadagno, hanno preferito oscurare la divisione della Città Santa con un colpo di spugna sulla planimetria ufficiale e quindi di conseguenza sottacere le sofferenze e le privazioni a cui è soggetta la popolazione araba.

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via Salute internazionale

C’è da chiedersi a questo punto chi diriga il gioco e chi gestisca realmente la gara ciclistica: RCS o il governo israeliano? Anche perché, osservando il percorso delle prime due tappe in linea successive al prologo di Gerusalemme, Haifa – Tel Aviv lungo la costa nord-occidentale e Be’er Sheva – Eliat attraverso il deserto del Negev, notiamo come il tracciato si snodi unicamente all’interno dei territori del ‘48 ed eviti zone come la Cisgiordania, dove i check-point dell’esercito, il Muro, gli insediamenti dei coloni israeliani e la militarizzazione del territorio avrebbero potuto mostrare uno scenario differente, fatto di oppressione, espropriazioni e violazione di ogni tipo di libertà e diritti umani.

Dall’annuncio di novembre era impossibile non osservare la sempre crescente tensione nella zona, scatenata prima dall’annuncio della decisione irresponsabile e immotivata da parte della Casa bianca di spostare l’ambasciata statunitense del paese a Gerusalemme, annuncio che ha dato nuova propulsione alle proteste che stanno continuando ancora in queste settimane.

E i palestinesi? Da quando si è scelto di far partire il Giro d’Italia dalla Terrasanta nessuno mai li ha nominati, nemmeno alla lontana o di sfuggita.

Al preventivato silenzio delle autorità israeliane si è accodato quello degli organizzatori della corsa e dei giornalisti sportivi nostrani, che entrambi si sono lungamente prodigati in appelli su come la bicicletta possa unire le persone nel segno di generici ideali pacifici e su quanto fosse importante collegare due città “spirituali” come Gerusalemme e Roma (dove si concluderà il Giro 2018) nel settantesimo anniversario (maggio 1948) della creazione dello Stato di Israele.

Per i palestinesi questa ricorrenza ha un valore ben diverso: la Nakba segna la perdita delle proprie terre e l’esodo di centinaia di migliaia di profughi. Come è possibile parlare di pace tra i popoli quando, di fatto, c’è una guerra in corso e il percorso del Giro d’Italia è pensato e costruito in funzione della legittimazione dello Stato d’Israele, dimenticandosi in toto la presenza dei palestinesi e dei territori in cui oggi vivono? Soltanto negli ultimi giorni abbiamo assistito a decine di morti e centinaia di feriti tra i civili palestinesi durante le manifestazioni per il “diritto al ritorno” dei profughi nei territori del 1948, colpiti da proiettili israeliani poiché “colpevoli” semplicemente di essersi avvicinati troppo alle recinzioni presidiate dai soldati.

Molti commentatori sportivi hanno difeso la scelta di partire dalla Terrasanta sottolineando l’occasione irripetibile in termini di ritorno di immagine ed economico per la Corsa Rosa, nonché ravvisando nella grand départ fuori dall’Europa un’anticipazione verso cui tenderanno anche gli altri due grandi giri.

Spesso sono gli stessi commentatori che ad ogni nuovo caso di doping dedicano intere dirette televisive e articoli di giornale vagheggiando un ritorno al “ciclismo umile e delle origini” ed esortando a una nuova rieducazione etica dei corridori a partire dalle categorie giovanili. Sono proprio le sponsorizzazioni milionarie, e non ultimo il maxi-finanziamento per la partenza da Israele, che minano molti dei valori alla base dello sport, immettendo spropositate quantità di denaro all’interno del circus del ciclismo e incrementando notevolmente i premi-vittoria, spingendo molti atleti a barare assumendo sostanze proibite per migliorare le proprie prestazioni, così da ottenere grandi guadagni e risultati soddisfacenti per strappare nuovi contratti nel mondo del professionismo.

Il governo israeliano si è costruito una bella vetrina, con la connivenza e la subalternità di RCS, in cui autocelebrarsi e riabilitarsi agli occhi della comunità internazionale attraverso la partenza del Giro d’Italia 2018. Le ingerenze politiche sono state chiare e percepibili sotto molteplici aspetti: da un finanziamento mai così alto per ottenere la partenza della corsa, a una risemantizzazione dei luoghi geografici e della planimetria ufficiale, che sottende un tentativo di “revisione” della storia, fino alla creazione di un tracciato che esclude le terre in cui risiedono oggi i palestinesi.