in copertina: foto CC Adrian Pingstone
Si era parlato di introdurre il taser già nel 2014, con un modello simile a quello proposto oggi: sperimentazione in alcune città e poi estensione del suo utilizzo a tutto il paese.
Il 20 marzo è stata firmata dal capo della direzione anticrimine la circolare che dà il via libera all’utilizzo sperimentale del taser in alcune città italiane, tra cui Milano — nonostante l’assessora alla sicurezza cittadina, Carmela Rozza, si sia dimessa a febbraio e la sua delega sia in mano pro tempore al sindaco Sala. L’obiettivo è sperimentare la nuova arma per poi estenderne l’utilizzo a tutta Italia, sia per il corpo dei Carabinieri che per quello della Polizia di stato.
Il taser è composto da due fili elettrici che vengono lanciati da un apposito dispositivo — simile nell’aspetto a una pistola — verso il soggetto da immobilizzare. Una volta che le punte dei due fili toccano il corpo della vittima, il circuito viene chiuso: si crea così una scossa elettrica sufficientemente forte da paralizzarla, e consentirne l’arresto.
Il taser è stato dichiarato nel 2007 uno strumento di tortura dall’ONU. Il suo utilizzo da parte delle forze dell’ordine, secondo Amnesty International, sarebbe stato causa diretta di addirittura 290 morti al tra il 1998 e il 2007, risultando dannoso in particolare per soggetti con patologie cardiache. Il nome “taser” è l’acronimo di Thomas A. Swift Electronic Rifle, e deriva semplicemente dalla prima ditta produttrice dello strumento — che ad aprile dell’anno scorso, però, ha cambiato nome per evitare di essere associata in modo così diretto a uno strumento con questa etichetta di tortura.
Nonostante i sindacati di polizia abbiano fatto pressione negli ultimi anni per l’adozione di questo strumento motivandolo con la necessità di “adeguarsi agli altri paesi europei” — va fatto notare che in Francia, nel 2013, un arrestato colpito dal taser ha preso fuoco — l’utilizzo del taser va ad aggiungersi ad una serie di controversie relative alle forze di polizia italiane — effettivamente condivisi, va detto, con molte forze dell’ordine occidentali.
Un esempio è l’uso del gas lacrimogeno. In Italia la polizia è abilitata dal 1991 ad utilizzare il gas CS per il mantenimento dell’ordine pubblico, nonostante questa sostanza sia classificata come arma chimica e ne sia dunque vietato addirittura l’utilizzo in guerra. Questo articolo del Post illustra molto bene la storia dell’utilizzo di questa arma, che nel 2014 ha compiuto 100 anni. Più recentemente si sono segnalate molte violazioni del codice di condotta relativo all’uso di questo gas, i cui contenitori non dovrebbero mai essere sparati ad altezza d’uomo, ad esempio durante i disordini di Milano in corrispondenza dell’inaugurazione di Expo, il Primo maggio 2015.
La possibilità di identificare i membri delle forze dell’ordine che commettono infrazioni, irregolarità o atti criminosi nell’esercizio delle loro funzioni è un altro punto dolente delle forze di polizia italiana.
Nel 2001 il Consiglio d’Europa raccomandava attraverso il Codice europeo di etica della polizia l’adozione di misure identificative per i tutori dell’ordine — proprio nell’anno in cui in Italia accadeva l’orrore della Diaz.
In Italia sono stati proposti nel corso degli anni quattro disegni di legge a questo scopo, ma nessuno è stato approvato. Si stabiliva, ad esempio, che sui caschi dei membri delle forze dell’ordine fosse apposto un numero identificativo chiaramente visibile che ne rendesse possibile l’identificazione in caso di abusi. L’ultimo a livello cronologico è il disegno di legge portato avanti dal senatore PD Manconi. Proprio Manconi è stato tra i principali promotori di uno dei principali passi avanti sull’avanzamento del nostro paese in merito alla ridefinizione delle responsabilità delle forze dell’ordine con l’introduzione del reato di tortura, approvato nel luglio 2017 dopo una discussione più che decennale, e per molti versi azzoppato — anche a detta del suo stesso autore originario.
Si era parlato di introdurre il taser già nel 2014, con un modello simile a quello proposto oggi: sperimentazione in alcune città e poi estensione del suo utilizzo a tutto il paese. In quell’occasione però il progetto naufragò. Tra i vari contrari è da segnalare l’opposizione del Movimento 5 stelle, per il quale la spesa necessaria all’acquisto della strumentazione sarebbe stata eccessiva — non proprio una ragione caritatevole. Probabilmente oggi è cambiato il clima politico sia per quanto riguarda il movimento che, soprattutto, per quanto riguarda la percezione della legittimità dell’uso della violenza, pubblica e no. La Lega di Matteo Salvini è un partito entusiasta della legittima difesa “all’americana,” con un approccio alla se-entri-in-casa-mia-posso-ucciderti, e ha riscosso un largo consenso alle scorse elezioni.
Del resto Salvini si è esposto più volte per difendere l’operato delle forze di polizia anche quando evidentemente contestabile, propagandando un’immagine di sé vicina alle forze dell’ordine senza se e senza ma. Chi si dichiara soddisfatto dell’utilizzo del taser, però, sembra non capire che delle forze dell’ordine regolamentate, che non usino strumenti di tortura, non costituiscono una debolezza per il proprio paese, ma un segno di maturità a livello sociale e politico.
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