Un viaggio tra frammenti di vita quotidiana, con François Ollivier
“La cosa importante è farsi trascinare, non lasciarsi scappare le occasioni e scattare sempre una fotografia, non perdere i momenti che ti capitano.”
Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.
Diaframma è una rubrica dove vengono proposti lavori perlopiù lavori di stampo documentaristico. È un luogo di riflessione, dove ogni settimana un fotografo diverso ci permette di esplorare luoghi nuovi o poco conosciuti, così come fatti o eventi. E lo facciamo attraverso le parole, oltre alle immagini, dei fotografi stessi.
François Ollivier apparentemente va contro questo schema. Come lui stesso afferma, parlando del suo progetto: “Non c’è un significato più profondo o un sottotesto.”
Questa settimana abbiamo l’occasione di guardare con altri occhi il mondo semplicemente per come si presenta. O meglio, per come ci viene presentato. Ollivier dunque ci trasporta in un quotidiano che in poco tempo ci fa rivivere sensazioni ed emozioni comuni.
Ciao François! Vorrei partire dal fatto che più mi ha colpito di questa serie, Stills from the real life: la quantità di soggetti differenti che sono rappresentati all’interno della serie. Come è avvenuta la scelta dei soggetti?
Questa è una serie che è stata realizzata tra due progetti pensati e progettati. Lavoro spesso con un soggetto specifico in testa, ma ogni tanto ho bisogno di lavorare su quello che mi interessa veramente, in maniera meno vincolata. Per me la produzione di immagini va seriamente di pari passo con la mia vita, è una sorta di estensione naturale. Dico molto attraverso le fotografie che scatto; mostro il modo in cui guardo le cose e le persone, ed è naturale che sia anche una pratica giornaliera che mi aiuta a capire anche me stesso.
Detto questo, la serie l’ho realizzata nell’arco di un anno circa, tra un viaggio e l’altro. Il mio approccio nei confronti di questa serie consisteva nel non scegliere direttamente i soggetti.
Le cose alla fine ti arrivano addosso così come sono: la cosa importante è farsi trascinare, non lasciarsi scappare le occasioni e scattare sempre una fotografia, non perdere i momenti che ti capitano.
Credo sia interessare notare la differenza delle stagioni, la variazione della luce, i contesti. Non sono solo i soggetti quelli che cambiano.
Potrei aggiungere ai tuoi esempi anche i diversi stati, latitudini e longitudini che si riflettono in maniera importante nella variazione di luce e di atmosfera.
A un certo punto ho deciso che avrei smesso di scattare nuove fotografie per fermarmi e guardare attentamente tutte le immagini che avevo realizzato sin da quando ho iniziato a creare questa serie.
A prescindere che ci fosse neve o un gran bel sole, per me rientrano tutte in una stessa categoria di fotografie: cose che ho visto in un particolare momento e cose che probabilmente non vedrò nuovamente. Ecco perchè le ho chiamate Still lifes (nature morte, ndr).
Descrivi il tuo progetto in maniera intima e contemplativa: un racconto in prima persona. Tralasci ogni aspetto descrittivo, che invece si ritrova in altre tuoi progetti. Hai vogli di dirci qualcosa di più sull’origine di queste fotografie?
Si tratta di un lavoro che non ha la pretesa di spiegare quello che non si può vedere. È effettivamente una serie fotografica molto contemplativa e aggiungerei che si spiega da sé: ciò che vedi tu è quello che ho visto io. Non c’è un significato più profondo o un sottotesto.
Senza dover per forza di cose dover dare un significato alla serie c’è un grado maggiore di libertà. In questo modo posso sperimentare, provare cose nuove e che non sono perfettamente allineate con il mio stile; chissà mai che le possa utilizzare per un progetto futuro! Come ho detto prima si tratta di un racconto che sta tra due storie, è la parte residuale.
Parlami del tuo approccio alla fotografia in generale. Come mi raccontavi si nota che scatti molte fotografie per decidere in seguito come racchiuderle all’interno di un progetto. Sembra che la fotografia per te sia una necessità più che una decisione a priori.
E’ vero che scatto molte fotografie, così come è vero le faccio a qualsiasi cosa abbia voglia di documentare: tempo, luoghi, persone, luce, cose, paesaggio…tutto quello che incontro.
Raccolgo continuamente Still life per poi metterli insieme e vedere cosa succede. Anche nel caso di What Went Down mi è capitato di utilizzare questo approccio, che poi, è casuale solo all’apparenza.
Quando si tratta di progetti editoriali o commerciali invece, cambia il tuo approccio? Pensi ci siano delle differenze nel tuo caso?
Diciamo che cerco di trovare un equilibrio. Quando si parla di lavori che contemplano la presenza di un art director, come nel caso di campagne commerciali, si passa su un altro piano di lavoro. In questi casi si tratta di unire sforzi e obbiettivi comuni, anche se mi è capitato qualche volta di diventare un semplice operatore che esegue compiti prestabili. Un’altra differenza sostanziale in questi casi sono le tempistiche!
Per quanto riguarda i miei progetti personali invece, la sostanziale differenza è che diventi il giudice di te stesso e colui che regola tutto il processo. Ma su tutto, la differnza si ritrova soprattutto nelle tempistiche più larghe, che non potresti mai permetterti in un lavoro di tipo editoriale o commerciale.
La mia speranza è quella di arrivare a poter lavorare, negli anni a venire, a progetti personali con un tipo di estetica applicabile anche a lavori di tipo commerciale. Questo sarebbe il miglior risultato da raggiungere. Ovvio, poi bisogna fare anche i conti in tasca, ma diamo tempo al tempo.
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François Ollivier è un fotografo freelance autodidatta. Nato nel sud della Francia vive e lavora a Montreal dal 2011. Prima di dedicarsi alla fotografia ha studiato lingue, lavorato come light designer per eventi e passato diversi anni a seguire campagne creative.