Portare l’arrampicata sulle montagne della West Bank
A cavallo tra il vecchio e il nuovo anno, un gruppo di ragazze e ragazzi è partito per la Palestina — assieme a un carico di attrezzatura d’arrampicata.
A cavallo tra il vecchio e il nuovo anno, un gruppo di ragazze e ragazzi è partito per la Palestina — assieme a un carico di attrezzatura d’arrampicata. Era il viaggio esplorativo del progetto ambizioso di facilitare la pratica dello sport dell’arrampicata in Palestina.
L’idea è nata ad Acciaieria, la palestra autogestita di Zam, centro sociale storico di Milano, ora situato a sud della città — il progetto si chiama West Climbing Bank. L’obiettivo, come si legge nel manifesto sul sito del progetto, è quello di arrampicare liberamente. La libertà territoriale del popolo palestinese è infatti negata dall’esercito israeliano, a partire dagli spostamenti quotidiani, quindi in Palestina è fondamentale un progetto che garantisca l’accessibilità al territorio — e perché non partire dalle montagne?
Abbiamo incontrato Massimiliano, uno degli organizzatori, per farci raccontare del progetto, di Acciaieria e del luogo che la ospita.
Com’è nato il progetto West Climbing Bank?
Il progetto è nato in maniera abbastanza casuale: è venuto a visitare Zam uno dei responsabili di Laylac (centro culturale del campo profughi Dheisheh, a sud di Betlemme a cui si appoggia il progetto n.d.r.). Ci ha raccontato della comunità di climbers che c’è a Ramallah, abbiamo pensato di fare inizialmente una raccolta materiale e poi ci siamo detti “beh però organizziamoci per portarglielo questo materiale,” in modo che il nostro contributo fosse il più politico e il più evidente possibile. Così è partito tutto.
Poi abbiamo aperto il blog, la pagina e abbiamo cercato di capire chi in Acciaieria voleva partecipare e alcuni climber, anche quelli che magari frequentavano la palestra ma non l’aspetto più politico del centro sociale, hanno deciso di affrontare questo viaggio.
Poco dopo il vostro ritorno, a fine gennaio, avete organizzato un incontro a Zam in cui avete fatto un resoconto di quello che era stato il primo viaggio esplorativo e si vedeva che eravate presi e provati dall’esperienza fatta: cosa avete portato a casa da questo primo viaggio?
La restituzione una parte importante del nostro progetto come si evince dal fatto che in quel primo incontro di narrazione del viaggio si sentiva tutta l’empatia che le persone che non erano mai state in Palestina hanno provato, tutto quel carico di esperienza e umanità che quella terra ti lascia e ti fa portare con te.
La cronaca di quello che è accaduto e il progetto in sé non passano in secondo piano, ma quello che ti viene da raccontare è l’emozione di ciò che è stato visitare alcuni luoghi anche nel senso più tragico del termine, un’emozione che nasce dalla forza e dalla resistenza del popolo palestinese. Per cui quello che ti porti a casa è un po’ questo, una grande voglia di raccontare quello che il popolo palestinese sta vivendo e con quanta forza e pazienza riesce a sopravvivere e resistere quotidianamente.
Com’è possibile che nella lunga catena di oppressione che arriva dall’alto non ci sia qualche anello mancante, un civile che si rifiuti di impedire a un palestinese di prendere l’autostrada o un altro che lo tratti gentilmente a un check point?
Perché si tratta di un progetto politico molto più grande di qualsiasi intervento di solidarietà di intervento anche di intromissione di paesi esteri nella geopolitica locale.
Credo che il popolo palestinese sia uno dei più pazienti che esista al mondo, qualunque altra persona sarebbe impazzita nel sopruso quotidiano e invece loro con una pazienza incredibile cercano di contrastare questo meccanismo. Tutto questo è una pratica che loro devono attuare e la attuano con una pazienza incredibile — un italiano va lì per 10 giorni e ne ha a sufficienza.
Credo che ci siano israeliani contro l’occupazione, pochi si mobilitano, molti preferiscono non sapere. Chi sta a Tel Aviv e vive una vita normale non vuole sapere cosa accade a Hebron, si sente solo dire in continuazione che i palestinesi sono un problema di terrorismo e di sicurezza. Per ciò la solidarietà israeliana è inefficace, è importante avere delle voci che dichiarino di essere contro l’occupazione ma non cambino nel quadro quotidiano, perché è il potere politico tradotto in quello militare quello che conta.
La questione di sicurezza che hai ricordato tu è un ritornello continuo che viene ricordato agli israeliani e all’occidente: i palestinesi sono terroristi da cui difendersi. Lo si vede già dal nome dell’esercito israeliano Defense Forces.
Sì, diventa lo strumento di legittimità del potere per fare qualsiasi cosa perché si sentono sempre sotto attacco. Questa cosa si percepisce molto a Gaza che è l’unico territorio palestinese in cui non ci sono israeliani — ma è una prigione perché è chiusa su tutti i lati. A livello militare c’è una disparità di forza estrema.
Quando vai lì senti questa resistenza che ti contagia, sai che loro non hanno speranza, ma come loro vivono la quotidianità e come tu dai un supporto per loro è fondamentale per la sopravvivenza.
E qui torniamo alla speranza che avete portato voi: qual è il significato di aver portato uno sport del genere in Palestina?
Credo che sia fondamentale per una questione di accessibilità, più che la questione culturale dello sport: in Palestina non è garantita l’accessibilità ai luoghi, alle attrezzature e al fatto di poter decidere che l’arrampicata è lo sport che vuoi fare.
Garantire l’accessibilità ai luoghi e ai materiali che altrimenti per loro non sarebbero accessibili è il motivo primario, ma allo stesso livello di importanza riuscire a creare in questi luoghi una sorta di ipoteca territoriale contro l’occupazione. Se rendi accessibile un posto e fai in modo che diventi un luogo di ritrovo sociale, crei una ipoteca di giustizia rispetto alla libertà dei palestinesi di poter usufruire dei territori, cosa che viene spesso erosa dall’occupazione.
Invece parlami un po’ di Acciaieria: com’è nata l’idea di costruire una palestra autogestita di arrampicata a Zam?
Acciaieria è nata sette anni fa per l’intuizione di un climber che frequentava Zam come attivista politico, si è detto “perché non costruiamo una palestra autogestita all’interno dello spazio?” Ha investito risorse economiche e di tempo nel progetto ed è stata costruita Acciaieria, che è stata ed è una delle attività portanti nello spazio. La palestra ha fatto sì che molte persone, anche non militanti, si avvicinassero a un luogo occupato con una attitudine diversa: una attenzione per il luogo in cui entravano, coscienti di arrampicare in uno spazio occupato e liberato. Persone che poi sono entrate nelle iniziative e nel collettivo di gestione.
Notevole perché non tutti i centri sociali oggi sono ancora in grado di mettere in atto questo tipo di inclusività.
L’inclusività è uno dei grandi problemi di molti centri sociali che con il tempo rischiano di diventare autoreferenziali in quello che dicono e in chi li frequenta, diventano un po’ un circolo chiuso. Invece l’arrampicata da questo punto di vista è un ottimo strumento di inclusione, come altre attività che ci sono a Zam che hanno prodotto lo stesso risultato: portare gente che non ha mai messo piede in un centro sociale e che poi capisce l’importanza e il senso del luogo liberato.
Inoltre più vengono coinvolte persone del quartiere, più l’attività è territoriale, più le persone entrano e si fidano. Ora infatti, frequentano Zam, tanti ragazzi giovani del quartiere, che magari non fanno attività, sanno che lì c’è un posto che non li manda via e in cui possono stare, senza per esempio l’obbligo di consumazione. Questo è un altro problema di alcuni centri sociali: diventare luoghi di consumo. Il nostro invece è un lavoro di presenza territoriale che Zam ha iniziato a intraprendere da un po’ di anni.
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Zam è una proprietà del Comune, giusto?
Sì e c’è una sorta di silenzio assenso. In sostanza non siamo un problema che questa amministrazione vuole affrontare. Il nodo politico degli spazi sociali occupati a Milano non è mai stato affrontato veramente se non quando si trovano escamotage tecnici per sgomberare. Poi il Comune si nasconde dietro al grandissimo moloch dei bandi e se non ti legalizzi tramite i bandi non hai diritto a uno spazio. Questo è un errore perché, e lo racconto perché la mia prima esperienza politica nel 2003 nasce proprio con una struttura presa a bando, il bando non può essere l’unica risposta politica, sono fatti in modo da non essere accessibili a tutti.
Qui a Zam vivete un tipo di occupazione mentre in Palestina avete visto un’occupazione molto diversa.
Sì, è un termine ambivalente. Noi qui rivendichiamo un’occupazione degli spazi come una riqualifica dei beni comuni, la differenza linguistica e politica in Palestina è che quella è un’occupazione atta a distruggere un popolo, e di conseguenza è una chiara strategia politica.
L’occupazione per noi è un mezzo non per forza un fine, il fine è poter avere degli spazi e restituirli alla cittadinanza.
L’accezione negativa è proprio quello che si vede in Palestina: disintegrare un altro popolo attraverso lo strumento dell’occupazione. Le nostre occupazioni non sottraggono niente a nessuno anzi, l’occupazione israeliana sottrae abitazioni ai privati.
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Tutte le foto degli attivisti del progetto.
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