Al Nord come al Sud, i cittadini hanno premiato i partiti che hanno saputo indicare un nemico su cui addossare la responsabilità del proprio disagio: l’Unione europea e gli immigrati.
Come per molti altri, il mio personale bagno nel “paese reale,” fuori dalla bolla, è avvenuto durante il cenone di Natale dello scorso dicembre, quando immancabilmente qualcuno tira fuori il tema del momento: l’emergenza immigrazione. Seduto alla mia destra, un parente di secondo o terzo grado prorompe in uno sfogo acrimonioso contro “questi” a cui lo stato dà tutto, mentre agli italiani non dà niente, riscuotendo larghi consensi in tutta la tavolata. Il framework è dato dai servizi dei talk show di Mediaset come Quinta Colonna o Dalla vostra parte, citati come prova dei privilegi degli immigrati, che stanno negli alberghi, passano avanti nelle graduatorie per le case popolari, eccetera.
In quel momento, oltre allo stupore nel vedere una decina di persone storicamente votanti sinistra o centrosinistra convertite all’improvviso all’odio razziale della formula “prima gli italiani,” mi era impossibile non notare il contrasto tra quella tavola imbandita con una quantità di cibo impossibile da ingerire e la recriminazione contro chi vive bloccato in un centro d’accoglienza con 2,50 € di pocket money dopo aver rischiato la propria vita per scappare dal proprio paese. In altre parole, il contrasto tra la percezione del proprio impoverimento e la povertà reale.
A San Gavino, il paese in questione, immerso nella campagna a sud della Sardegna, i richiedenti asilo inseriti nel circuito SPRAR a fine gennaio dell’anno scorso risultavano dieci (10). Alle elezioni di domenica, il Movimento 5 Stelle ha vinto con il 48,78% dei voti; al secondo posto la coalizione di centrodestra con il 26,09%, di cui alla Lega il 9,79 (che nel 2013 aveva preso lo 0,15, 8 voti in totale).
Quanta soddisfazione, Amici, nel vedere che le idee della Lega si radicano in tutte le regioni del nostro Paese. Sfida vinta. E siamo solo all’inizio!#primagliitaliani pic.twitter.com/iNCrN7GIXB
— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) March 6, 2018
Dalle urne è emersa con evidenza una profonda spaccatura tra Nord e Sud, ma questo dato — evidente a colpo d’occhio dalla mappa dei collegi — non deve far dimenticare che la Lega di Salvini ha più che ventuplicato i propri risultati in tutte le regioni del Meridione: per esempio, nella circoscrizione Campania 2 (che esclude Napoli) è passata dallo 0,38 al 5,75; in Basilicata, dallo 0,12 al 6,28; in Calabria, dallo 0,25 al 5,61; in Sicilia 2, dallo 0,20 al 5,11. E così via.
Questi risultati sono tanto più significativi in quanto l’incremento è di 4-5 volte superiore a quello registrato su base nazionale (dove la lega è passata dal 4 al 17), e soprattutto superiore a quello del Movimento 5 Stelle, che nelle stesse regioni ha visto i propri “soltanto” raddoppiare. Ai primi due termini di un’analisi superficiale che ha circolato molto in queste ore — “il Sud vuole il reddito di cittadinanza, il Nord vuole meno tasse” — potremmo quindi aggiungerne un terzo: nessuno vuole gli immigrati.
Il sud vuole un reddito assistito
Il nord vuole meno tasse
In bocca al lupo al bilancio e al debito pubblico italiano https://t.co/ElVSLGB0Aq
— jacopo iacoboni (@jacopo_iacoboni) March 5, 2018
Il Movimento 5 Stelle e la coalizione di centrodestra — che, anche se a rapporti invertiti tra Nord e Sud, insieme fanno quasi ovunque il 60-70% — condividono essenzialmente le stesse posizioni in materia di immigrazione. La formazione di Di Maio ha mantenuto un profilo lievemente più vago — nel senso che almeno non ha fatto del “primato degli italiani” la cifra della propria campagna elettorale, come Salvini — ma è evidente che non avrebbe ricevuto lo stesso strabordante consenso se non avesse strizzato l’occhio alle pulsioni xenofobe dell’opinione pubblica, portando a compimento una deriva a destra che ha radici lontane.
Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi penso ad accogliere più turismo, che rilanci l'economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull'economia locale.
Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso #Lazio #M5S #lanostraregionedivita pic.twitter.com/hrBL8evcEb— Roberta Lombardi (@robertalombardi) February 21, 2018
Parlare di voto “anti-establishment,” che è l’interpretazione che va per la maggiore soprattutto sulla stampa estera (ma non solo), ha francamente poco senso: la coalizione di centrodestra che ha ottenuto la maggioranza relativa ha governato il paese per 20 anni, con effimere interruzioni; la Lega governa stabilmente nelle due regioni più ricche del Nord; il Movimento 5 Stelle, dal canto suo, inizia ora la sua seconda legislatura parlamentare, governa a Roma, Torino e Livorno, e negli ultimi mesi ha fatto uno sforzo immane per istituzionalizzarsi e presentarsi come l’esatto contrario di una forza anti-establishment: basta dare un’occhiata alla squadra ministeriale presentata da Di Maio prima del voto.
Anche l’altra interpretazione “semplice” del voto di domenica, quella che vede nell’affermazione di Lega e M5S l’espressione di un mai meglio precisato “disagio sociale,” buttato dagli editorialisti della domenica nel grande calderone della Brexit e dell’elezione di Donald Trump, regge poco. O, almeno, andrebbe circostanziata con un po’ più di precisione.
La Lega trionfa con percentuali attorno al 30 nelle regioni con il Pil pro-capite più alto d’Italia. Al collegio uninominale di Lecco, quinta provincia più ricca del paese, il candidato della coalizione di centrodestra è stato eletto con il 50,7% dei voti, con il 33,12 alla Lega. Numeri simili si ritrovano praticamente in tutte le province di Lombardia e Veneto.
Nonostante il consenso in crescita tra settori d’impiego tradizionalmente considerati vicini alla sinistra, leggere il successo del partito di Salvini come una rivalsa “di classe” dei cittadini “dimenticati” fa sorridere. Al Sud, dove gli indicatori di povertà assoluta e relativa, così come quelli della disoccupazione, raggiungono spesso cifre doppie rispetto alle regioni del Nord, ha più senso individuare una correlazione fra il trionfo del Movimento 5 Stelle e la situazione economica disastrata del Mezzogiorno. Ma anche da questo quadro — considerato il vertiginoso incremento dei consensi ottenuti dalla Lega anche in queste regioni — si tralascia di considerare un dettaglio fondamentale: a vivere nelle situazioni più gravi di disagio, in Italia, sono proprio gli stranieri. Che però, nella stragrande maggioranza non possono votare: le nuove acquisizioni di cittadinanza nell’ultimo decennio sono state poco meno di un milione, a fronte dei circa 5 milioni di stranieri residenti regolarmente in Italia al 1° gennaio 2017.
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Sempre secondo l’Istat, le famiglie a basso reddito in cui è presente almeno una persona senza cittadinanza italiana presentano uno svantaggio economico peggiore del 40% rispetto alla media e il rischio di povertà o esclusione sociale è il doppio (49,5%) rispetto alle famiglie di soli italiani. Per questo, quando disegniamo uno scenario in cui le periferie urbane disagiate si oppongono alle élite del centro votando a destra, non dobbiamo dimenticare che la maggior parte degli abitanti di queste stesse periferie, quella più povera, non vota.
Le elezioni di domenica scorsa, come ha detto Di Maio, sono state post-ideologiche, ma in questo senso: non si è votato in nome di una complessiva idea di stato — ormai sparita dai programmi di quasi tutti i partiti — ma in base ai colpevoli che si sono voluti individuare per una percepita situazione (o dietro la minaccia e la paura, più o meno giustificata) di un impoverimento relativo.
Al Nord come al Sud, i cittadini hanno premiato i partiti che hanno saputo indicare un nemico a cui addossare la responsabilità del proprio disagio: l’Unione europea e gli immigrati, a cui il M5S aggiunge la classe politica precedente (cosa che per ovvie ragioni non può fare il centrodestra, accontentandosi di additare alcuni provvedimenti particolari delle passate amministrazioni, come la riforma Fornero). Nel frattempo, il Pd era troppo impegnato a ripetere che tutto stava andando alla grande, invece di contrastare con un capillare impegno solidaristico — sempre più necessario — l’odio inter-etnico fomentato ad arte dagli avversari.
Le percentuali dell’altroieri sono il risultato di una paziente propaganda costruita negli ultimi cinque anni dalle destre, attraverso la strumentalizzazione sistematica di casi di cronaca e “disagio” periferico: dall’emergenza “insicurezza” nel Nordest — a cui la Lega ha da offrire la propria battaglia per la “legittima difesa” — alle rivolte contro i centri d’accoglienza nelle periferie romane nell’autunno del 2014, cammuffate da sommovimenti spontanei ma puntualmente infiltrate e sobillate da Lega e neofascisti. A Goro, il paese del ferrarese dove nell’ottobre del 2016 i cittadini improvvisarono barricate e blocchi stradali contro l’arrivo di dodici donne richiedenti asilo, anche in quel caso con la sapiente guida dei politici leghisti locali, la Lega ha ottenuto il 34%.
Commentare il voto appellandosi a una vaga “esasperazione” o “stanchezza” dei cittadini equivale a cedere alla stessa mistificazione, quella che attribuiva all’esasperazione anche la mano omicida di Luca Traini. Al contrario, il voto di domenica ha espresso il desiderio di rivalsa dei ceti medi impoveriti o minacciati dall’impoverimento relativo — dai piccoli imprenditori del Nord ai disoccupati del Sud — indirizzato dalle destre contro i ceti più poveri. Quasi una “rivolta piccolo-borghese”, anche se di una piccola borghesia profondamente mutata rispetto a quella che, con questa definizione, Luigi Salvatorelli attribuiva al cuore del fascismo.
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