Il Kecak e la ricerca del significato della danza rituale
Due mondi spirituali sembrano unirsi in un’unica rappresentazione: quello ancestrale del Kecak e quello primigenio del racconto della manifestazione del Dharma.
Hati Hati Yuki O, un viaggio in tre puntate alla ricerca dei rituali balinesi.
In questa puntata: Yuki O incontra I Made Djimat, illustre danzatore, per parlare dell’essenza della tradizione. Ida Bagus Gestut Ketut ci spiegherà invece come si incastrano le voci di un coro di Kecak, fino a sembrare un tutt’uno col mondo.
Leggi la seconda puntata: “Quando finiranno le cerimonie, finirà tutto.” Alla scoperta del Gamelan balinese
Ho fatto un sogno. Ero in una casa, dalle parti della prima periferia di Ubud. Dietro le risaie che puntavano dritto al cuore della città c’era anche una porzione di mare, sui cui stava fisso e basso il sole. Sentivo i gechi fare il loro verso, che piano piano diventava qualcosa di assonante alla domanda “che c’è?” E uscivo dalla porta principale.
I contadini e le contadine lavoravano con le gambe affondate nell’acqua e nella terra, battevano fasci d’erba in una vasca di legno e raccoglievano chicchi di riso grezzo su un lenzuolo. Il sole li ingigantiva facendoli diventare delle grandi ombre di uomini. A sinistra c’era una grande vacca nera, che poi ho capito essere un bufalo. Man mano mi avvicinavo, mi scrutava mansueto.
A un certo punto, di colpo si faceva buio. I contadini sparivano e si faceva un silenzio di pietra che aveva il sapore di un presagio. Poi il forte suono di cicale e di grilli che rimbombava nella foresta di palme che c’era dietro casa. Tornavo indietro a passo lento, cercando di capire cosa fosse successo e un coro di voci di uomini si faceva più forte man mano mi facevo più vicino, ai piedi della foresta. Un uomo mi invitava a imboccare un sentiero che mi portava al coro. Era quasi nudo, con un drappo legato alla vita, occhi sgranati e completamente stempiato.
C’era una ventina di uomini attorno a un albero che sembrava respirare insieme in un unico respiro. Tante voci sembravano una e l’albero s’illuminava nelle foglie a tempo con il loro intercedere corale. Respirava con loro. L’uomo disse: “Questo è un cak.” Dietro di me, una luna gigante diventava sempre più grande. E, insieme alla luna, cresceva l’ombra del bufalo che avevo lasciato dall’altro lato della casa.
Il bufalo batteva uno zoccolo sul terreno, provocando uno scossone alla terra simile a un terremoto che arrivava fino ai nostri piedi. Il coro di uomini si faceva più forte. E il bufalo giù con un altro scossone di terra. L’albero che illuminava le foglie di linfa vitale e fluorescente apriva i suoi rami al cielo come un grande uomo che apriva le sue innumerevoli braccia. Poi un suono sordo, più forte di qualsiasi suono. Pensavo mi avesse bucato i timpani.
Le cicale e i grilli si zittivano. La luna riprendeva il suo posto nel cielo e il bufalo era sparito. Forse andato in un luogo lontano. Gli uomini stremati rimanevano in un silenzio quasi non umano. In trance, abbandonato il corpo. L’uomo mi prendeva per mano e mi riportava di nuovo all’inizio del sentiero. Mi faceva segno di ritornare a casa. Quando nel sogno ho chiuso la porta di casa, mi sono svegliato. Ero a Ubud, nella casa di chi ci stava ospitando. E un geco ai piedi della finestra faceva un suono che sembrava “che c’è?”
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Ogni cosa del sogno mi rimbombava in testa. Mi sono ricordato del primo Kecak che ho visto in città. Gli uomini, i canti, le declamazioni. Le donne che a un momento personificavano Lakshmana e Rama e a un altro si facevano Sita.[footnote]Rama e Lakshmana sono protagonisti del poema epico Ramayana. Entrambi valorosissimi guerrieri. Lakshmana è il fratello di Rama che è il Dharma incarnato. Sita è la moglie di Rama.[/footnote] La scimmia bianca, Hanuman, ministro e valoroso vanara,[footnote] I vanara sono uomini scimmia della mitologia epica indiana. Vanara in sanscrito vuol dire “dotato di pelo e coda di scimmia.”[/footnote] abitante delle terre di Kishkindha che, incaricato da Sugriva, andava alla ricerca di Sita e del potente demone Ravana nei luoghi più reconditi della terra, attraversando oceani lunghi ottocento miglia che solo lui, tra tutti i vanara, poteva attraversare.
Kecak a Uluwatu: Hanuman si libera dalle fiamme, catturato dai demoni dopo lo scontro con Indrajit, nell’isola di Lanka.
Tutta la rappresentazione si svolgeva attorno al fuoco sacro. Il cak ora era un canto che sosteneva la partecipazione declamata degli attori, ora era una preghiera, primitiva come la vita stessa. Ora il coro stava ai quattro lati del fuoco, come i quattro elementi di fronte all’etere e Sugriva, il re dei vanara, li chiamava alla ricerca di Sita al servizio di Rama. Tante sono le storie che si intrecciano. I demoni sfidano Rama, e Rama, l’incarnazione del Dharma, portatore di giustizia e verità, dotato di “missili” potentissimi, in grado di intimorire persino gli dèi, li sconfigge uno dopo l’altro.
Due mondi spirituali sembrano unirsi in un’unica rappresentazione: quello ancestrale del Kecak e quello primigenio del racconto della manifestazione del Dharma. E l’uno sembra aiutare l’altro a sopravvivere in un’unica dimensione.
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I. B. Gestut Ketut, maestro di maschere, aveva fatto un passo indietro al racconto della foresta di Nusa Penida. Due anime si mostravano forti come il bianco e il nero. Le maschere, intagliate nel legno da mani sapienti avevano l’anima comune del bene e del male.
“Non c’è una maschera che rappresenta solo il bene e una che rappresenta solo il male. Perché così è la vita. È come un cavo dell’elettricità: se non vi fossero un polo positivo e un polo negativo non ci sarebbe la luce. Così è anche la terra. Le maschere diventano te quando le indossi e tu diventi le maschere. Vi prenderete l’un l’altro e insieme deciderete chi siete.”
Mi spiega com’è fatto il coro di uomini di un Kecak e, man mano che il racconto si fa più intenso, di come le voci si intrecciano l’un l’altra a ordire una fitta trama di suoni. Mi tornano in mente gli occhi e le bocche degli uomini che cantavano nel sogno, ai piedi di quell’albero magico, mentre il bufalo nero come il demone Dundubhi scuoteva la terra per intimorire la foresta e diffondere la sua inquietudine. Il coro spazzava via ogni grigiore di cielo, ogni scossa furibonda. Gli anziani avevano protetto ancora una volta il villaggio.
Secondo Ketut, forse oggi nessuno avrebbe l’austerità sacra di richiamare in terra gli spiriti come facevano i loro vecchi con l’uso del Kecak. Mi viene da pensare che forse il Kecak sopravvive negli spettacoli insieme al Ramayana nella costituzione di uno spettacolo della memoria. E, quindi, che la potenza ancestrale del Kecak contribuisce al valore spirituale della rappresentazione delle pie azioni di Rama. E che il Dharma fatto uomo aiuta alla sopravvivenza di un rito sacro e atavico come il Kecak, tenendolo in vita come qualcosa da non dimenticare. Qualcosa da non dimenticare poiché potrebbe essercene ancora bisogno.
Tutto quello che si dice intorno al Kecak sembra appartenere a qualcosa di nascosto. La storia della pestilenza, eradicata grazie a un intensissimo rito di esorcismo collettivo, sembra essere legata alla voce liberatrice di ogni male del cak, così come la ritualità sacra e antica di un cerimoniale che riguarda l’ingresso di un individuo della comunità nel mondo degli adulti. Si tende a unire queste spiegazioni in un unico significato primordiale, dando al Kecak un valore simbolico, traslato e altissimo. Ecco perché Anom Putra, barìs di Ubud, ci ha spiegato che il Kecak esiste ancora nelle cerimonie, puro come un tempo, nella segretezza dell’amore verso un culto forte che abita dentro di noi. Ed ecco perché tutto forse un giorno finirà solo quando finiranno le cerimonie.
Una sera di forti piogge, siamo andati in un teatro delle periferie di Ubud, a vedere un Kecak. Alcune cose erano simili ad altri Kecak cui avevamo assistito, altre differivano. Alla fine della rappresentazione, tutti gli attori si ritirano, tranne il coro (cak). Una schiera di donne avanza verso gli uomini e insieme si dispongono da una parte e dall’altra del fuoco sacro che sfavilla al centro dello spazio. Ai piedi del fuoco giace un braciere fumante. Le donne e gli uomini si alternano, intonando dei canti.
In mezzo a loro, dalle scale che separavano i due cori, scendeva in silenzio una bambina, che non aveva più di dieci anni. Con un fare di vecchia raggiungeva il fuoco sacro, tenendosi a un metro dal braciere. Su un tappeto cominciava una danza. Sembrava leggera, come fatta di zucchero filato. Uno sguardo fisso, incantato. Sempre per quelle scale, i passi di un sacerdote (Pemangku) segnavano una via di preghiera che chiedeva alle divinità di proteggere il villaggio. Tra le sue mani l’incenso profumava l’aria e l’acqua benedetta zampillava dai suoi gesti di benedizione sul capo della bambina, risvegliandola dal suo stato di trance.
In un altro Kecak, che avevamo visto due giorni prima, la rappresentazione era seguita da un Sanghyang jaran, una danza balinese che si svolge nel cortile del Tempio della morte (Pura dalem) durante i periodi di pestilenza, in cui un uomo cavalca un ramo adornato di foglie di palma, in evidente stato di trance, attraversando a piedi nudi le scorze delle noci di cocco arse dal fuoco. Ora, in quest’altra rappresentazione, era una bambina che, in uno dei diversi generi di Sanghyang dedari (“dedari” significa “angelo”), annuvolata dai fumi sacri dell’incenso, svolgeva un’altra danza sacra che necessitava di un altro stato di trance. Le conclusioni di entrambe le rappresentazioni, dell’uno e dell’altro Kecak, riportavano al discorso della pestilenza e dei riti di esorcismo collettivo legati in qualche modo al Kecak, e riguardano quei riti di purificazione dal peccato umano, dei torti ricaduti su una persona o su un intero villaggio, che con il Kecak hanno una radice in comune. Tutto è strettamente connesso e trova un unico denominatore nella comunità e in ciò che è atavicamente necessario alla comunità.
Lo stesso giorno in cui abbiamo visto questa rappresentazione simbolica, con Federica siamo andati a Batuan alla ricerca di I Made Djimat, illustre danzatore balinese, conosciuto in tutto il mondo, che ancora a settant’anni dedica sei mesi della propria vita in giro per il mondo per portare ovunque la tradizione della danza balinese.
Dalle domande che gli rivolge Federica, da danzatrice, mi rendo conto di quanto sia legato fervidamente alla tradizione balinese pura, lontana dalle contaminazioni. Per questa ragione gli chiedo: “Quando ti è capitato di danzare con artisti senegalesi, colombiani, brasiliani, ti è mai capitato di passarvi l’un l’altro dei movimenti e di sperimentare nuovi modi di esprimere la danza, dalle vostre rispettive tradizioni?” Lui mi risponde con poco più di due parole: “Io sono per la tradizione. Mi interessa questo e portarla nel mondo. Io sono la mia maschera, quello che rappresento. E questo mi basta.”
Ci sono attori che diventano le proprie stesse maschere. Così gli attori che muovono il Barong e Rangda diventano Barong e Rangda, in un rito di esorcismo collettivo, per pulirsi degli scongiuri ricaduti su qualcuno o su un intero villaggio.[footnote]G. Azzaroni, Matteo Casari, Asia, il teatro che danza, Ed. Le Lettere, Firenze.[/footnote]
“Vedi,” mi dice I Made Djimat, continuando il discorso, “domani ci sarà una cerimonia molto importante. La vecchia maschera Barong è invecchiata. E, invecchiando, comincia a sfigurarsi. Il consiglio del villaggio ha incaricato un maestro per la costruzione di una nuova maschera sacra Barong. Domani sarà un momento importante. Ci sarà una grande cerimonia con ben cinque Barong. Durante le danze e gli spettacoli, presenteremo il nuovo Barong al dio e ai Barong presenti alla cerimonia, di fronte a tutta la comunità, affinché il nuovo Barong, che prende il posto del vecchio, venga accolto e benedetto, in modo che possa lui in futuro continuare le funzioni. E domani, io sarò chiamato a danzare e voi siete invitati da me.”
In quell’io sarò chiamato a danzare ho visto il valore di un io riconosciuto, un io che è la maschera che avrò indosso, io che sarò ciò che rappresento, io che sono la tradizione che porto sulle mie gambe. Le sue parole mi hanno toccato al punto da cercare gli stessi occhi nei danzatori, e così ho cominciato a guardare le stesse rappresentazioni in modo diverso.
La notte seguente non riuscivo a dormire. Faceva un gran vento. Il riflesso sulla finestra giocava col buio. Mi alzo per chiudere la finestra e vedo una luce dietro la casa. Per non fare rumore, a piedi nudi, esco furtivo come un gatto. Dietro la siepe c’è il sentiero dei contadini che corre tra le due terrazze delle risaie. A un tratto la luce si fa più forte e un suono assordante e cieco invade tutto quello che c’era intorno. Torna di nuovo il coro di voci di uomini, forte e profondo come un rombo di tuono. La paura mi prende come la mano di un gigante che mi solleva dal suolo.
Sgrano gli occhi come se balzassi fuori dal letto e da me stesso.
Intorno a me ci sono le maschere di Ketut, è pieno giorno e Ida Bagus Gestut Ketut mi sta spiegando come si incastrano le voci di un coro di Kecak fino a sembrare un tutt’uno col mondo.
I. B. Gestut Ketut spiega i pattern del Kecak
Ubud: frammento di Kecak (cak)
Ubud: frammento di Kecak (attori)
Uluwatu: frammento di Kecak (cak)
Uluwatu: frammento di Kecak (attori)
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Angelo Sicurella (Palermo 1981) è un cantante e musicista impegnato nell’ambito della musica elettronica, del synth pop e della musica sperimentale, nella combinazione di materiali musicali del repertorio della musica classica e della musica sacra e profana con la musica elettronica.
Il suo primo lavoro solista, Orfani per desiderio, è uscito nel corso degli anni 2015/2017, diviso in tre capitoli musicali, seguiti da una trilogia video, diretta dalla regista palermitana Manuela Di Pisa. L’album racconta la vicenda accaduta nel 2013 al largo delle coste di Lampedusa, quando 366 persone morirono in preda a un mare calmo. Il 17 Novembre 2017 è uscito YUKI O, il suo primo LP.
“Da tempo guardavo a Bali come una meta spirituale e ricca di suoni. Questo viaggio è stato importante anche perché ho avuto modo di reperire molto materiale sonoro, dai Gamelan che suonavano per le diverse performance di danza tradizionale, ai rindìk del Teatro delle Ombre, alle conoscenze dirette con musicisti, attori e danzatori balinesi che mi hanno permesso di entrare un minimo in confidenza con i loro strumenti e la loro concezione del mondo dell’arte e della musica. Spero di ritornarci presto e di continuare il lavoro iniziato con alcuni musicisti del luogo. Il materiale che ho raccolto è già un ottimo punto di partenza per porre le basi di un nuovo lavoro, sia esso un disco o uno spunto per le musiche di uno spettacolo di danza contemporanea.”
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