La litania reazionaria del Filo nascosto
Anderson asciuga il genere che lo ospita e dimostra ancora una volta che la figura dell’autore è incapace di relazionarsi con il mondo al di fuori della realtà che lui stesso si è creato.
Paul Thomas Anderson asciuga il genere che lo ospita, quello appunto del mèlo, e dimostra ancora una volta che la figura dell’autore è quella di un essere incapace di relazionarsi con il mondo al di fuori della realtà che lui stesso si è creato.
Nel sentire comune oggi il termine litania è avvertito come qualcosa di essenzialmente noioso. Una ripetizione non necessaria, che infastidisce chi ha fretta di consumare qualsiasi cosa lo circondi. Ma nella sua origine più vera il senso della litania è in realtà qualcosa di ieratico, importante, forse anche vitale: si tratta di una forma di preghiera basata su di una successione di affermazioni enunciate da un sacerdote, un diacono o un cantore, alle quali l’assemblea risponde con dei codici condivisi, moralmente ed espressivamente. In epoca pre cristiana era una invocazione generica di aiuto.
I film di Paul Thomas Anderson in questo senso sono pienamente collocabili all’interno di questo contesto e forse ne costituiscono una delle ondate più possenti. Il codice in questo caso è lo studio del rapporto di potere che si instaura tra due personaggi radicalmente ed eversivamente archetipici. Anderson è il sacerdote che ci offre questa dualità costante, tra servo e padrone. Guardando un suo film capiamo che questo codice si offre all’assemblea in mille sfaccettature diverse, e costituisce in toto la realtà che noi percepiamo. Da There Will Be Blood a questo Phantom Thread (il filo è fantasma, non semplicemente nascosto), passando per The Master e infine attraverso una nebbia anarchica che quando si dirada è comunque chiarissima, Inherent Vice, il rapporto di potere scala in diversi gradi, ma viene riassunto sempre attraverso una subordinazione religiosa, annichilendosi in una rivoluzione reazionaria (ossimoro del cinema di Anderson) e dispiegandosi dal sottotesto alla narrazione.
In questo caso la storia presa a pretesto è quella di un rinomato stilista che “intreccia” una storia d’amore, di ossessione e di dominio alternato, con una giovane donna incontrata in un ristorante, facendone la sua modella prediletta e, in definitiva, la sua musa. Anderson dirige il suo film più meta narrativo e con meno gradi di separazione rispetto alla sua recente filmografia, fino al finale, quando paradossalmente l’atto di scoperchiare i rapporti passivo aggressivi di egemonia uomo-donna, creatore-creata, artista-opera d’arte, produce un effetto straniante, fuoriuscendo dalla realtà e assestandosi in una dimensione eterea e allo stesso tempo profondamente feroce.
Ispirandosi delicatamente a film di grandi maestri prima di lui – su tutti uno dei capisaldi della filmografia di Alfred Hitchcock, Rebecca, da cui Phantom Thread recupera l’alterità ambigua tra i due protagonisti e l’ossessione protettrice della sorella di lui – e modellando l’interpretazione di Vicky Krieps sullo statuario e irriverente cinismo di Ingrid Bergman (la stessa Krieps ha raccontato che, su consiglio di Anderson, il primo film da visionare per confrontarsi con il suo ruolo sia stato in realtà il recente documentario di Stig Björkman Ingrid Bergman: In Her Own Words), il regista tesse un vero e proprio filo fantasma che unisce in un morboso ed eterno abbraccio amore e morte. Dopotutto il vestito da sposa che aleggia e che rischia di disfarsi e di disfare la reputazione dello stilista nella storia è anche il vestito del fantasma di sua madre (il morto nell’immaginario anglosassone è sempre vestito di bianco), e se è vero che il momento della congiunzione amorosa e della morte sono gli unici due momenti in cui il tempo della realtà si disfa e smette di essere lineare, i minuti finali del film seguono questo stesso destino, una volta rivelata, in una nuvola di nebbia londinese, la vera essenza del potere che soggiace ai rapporti personali, accettato da chi lo impone e da chi lo subisce.
Rimanendo coerente a questo dettame, Paul Thomas Anderson esercita il suo potere anche su questo film, asciugando – come ha sempre fatto – il genere che lo ospita, quello appunto del mèlo, e dimostrando ancora una volta che la figura dell’autore non è altro che quella di un essere incapace di relazionarsi con il mondo al di fuori della realtà che lui stesso si è creato, per poter, a sua volta, creare. Quasi un grido d’aiuto, attraverso una litania.
? Guarda Paul Thomas Anderson mangiare una pizza
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