L’Italia sta ignorando l’esportazione delle proprie armi in Yemen
Il Comitato per la Riconversione RWM punta a fermare la produzione di bombe nella fabbrica di Domusnova, in Sardegna.
Intervista a Cinzia Guaita, portavoce del Comitato per la Riconversione RWM, che punta a fermare la produzione di bombe nella fabbrica di Domusnova, le cui armi vengono vendute al’Arabia Saudita in guerra con lo Yemen.
Cinzia Guaita è una professoressa delle scuole superiori di Iglesias, in Sardegna, e di recente è diventata portavoce del Comitato per la Riconversione RWM, che punta a fermare la produzione di bombe nella fabbrica della vicina cittadina di Domusnova, la cui produzione viene periodicamente venduta al Governo dell’Arabia Saudita, che è attualmente in guerra con il confinante Stato dello Yemen. Il conflitto ha causato a oggi più di 50000 vittime civili. Abbiamo intervistato Cinzia, che ci ha esposto il suo punto di vista sulla questione.
Raccontaci come è nata la protesta a Iglesias e come si è sviluppata, le persone coinvolte, le scelte di organizzazione, le paure. Chi è coinvolto oggi in prima linea?
Il nostro è un territorio bellissimo, ma ferito da una forte disoccupazione. Come tutti i luoghi in cui c’è carenza di lavoro ha subito assalti ambientali di vario genere, e nel 2001 anche una riconversione al militare di una fabbrica di esplosivi, fino a quel momento utilizzati in miniera. Tutto questo grazie a fondi pubblici. All’epoca c’era stata una grande sollevazione. La Chiesa, i sindacati, alcuni docenti universitari, le associazioni della società civile: nessuno voleva che in quella fabbrica si producessero armi ed è stato detto a gran voce, con raccolte di firme e manifestazioni varie. Ma la riconversione al bellico c’è stata e il movimento si è sciolto senza una chiara volontà di farlo, frenato da motivi burocratici, si disse allora, perché una serie di concessioni erano state fatte in anni precedenti, senza una precisa consapevolezza delle istituzioni e della popolazione, o forse rassicurato dalla versione dell’allora società SEI (prevalente proprietà francese) che assicurava il mantenimento degli scambi commerciali all’interno delle nazioni alleate nell’ottica della difesa comune.
Nel 2010 quella che era una proprietà SEI è stata acquisita dalla RWM Italia, con sede a Ghedi (Brescia), controllata dalla tedesca Reihnmetall, un colosso che fattura circa 5 miliardi di euro all’anno. La fabbrica ha offerto molto lavoro, radicandosi in un paese vicino a Iglesias, Domusnovas, a cui ha concesso finanziamenti per attività culturali e sociali, per parchi e giochi per bambini e per attrezzature per disabili, partecipando alle iniziative pubbliche e insinuandosi amichevolmente nella quotidianità delle persone. L’attività è cresciuta come un fungo velenoso. Pian piano la gente non direttamente coinvolta ha dimenticato che tipo di produzione si realizzava lì dentro, la si chiamava ancora “la polveriera”, come ai tempi della produzione mineraria. Fino a qualche mese fa si poteva fare un sondaggio tra gli abitanti del Sulcis – Iglesiente non residenti a Domusnovas e pochissimi sapevano di avere nel proprio territorio una fabbrica di morte.
Nel 2015, a seguito degli scontri tra ribelli Houti e le forze del presidente eletto Hadi, una coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha iniziato una sanguinosa guerra nello Yemen. Pochissimi si sono resi conto del fatto che a fornire le bombe all’Arabia Saudita, era (ed è) anche la fabbrica di Domusnovas, che le trasportava di notte dall’aeroporto di Elmas. Un deputato sardo, Mauro Pili, ha pubblicato sui social la documentazione filmata di quanto accade. Un senatore, Roberto Cotti, ha studiato il caso e ha divulgato i dati. Pochissimi altri politici si sono occupati della cosa. Diverse persone che avevano partecipato a quel movimento del 2001 però hanno ripreso a protestare, pur nel silenzio generale e nell’isolamento. Ci sono state diverse dimostrazioni atte a bloccare i turni degli operai, in un clima difficile, in cui il numero dei partecipanti alle manifestazioni era sempre molto basso. Erano un piccolo gruppo, ma tenace e consapevole dell’importanza della loro lotta. In principio io non appartenevo a questo gruppo, ma sono stata invitata a una giornata informativa, molto interessante, in cui eravamo molto pochi. Commentando con un’amica avevamo detto: “Queste cose andrebbero dette in piazza…”
A quel punto era iniziata una riflessione nazionale sulla mancata applicazione della legge 185/90 e dell’Arms Trade Tready, il trattato internazionale sul commercio di armamenti dell’Onu (ratificato dall’Italia il 2 aprile 2014), nonché sulle risoluzioni del Parlamento Europeo circa il conflitto in Yemen, paese nel quale una commissione di esperti aveva rilevato la presenza della “più grande crisi umanitaria dal secondo dopoguerra ad oggi.” Il nostro gruppo nel frattempo è cresciuto. Abbiamo mantenuto le porte sempre aperte a nuove adesioni e collaborazioni. Ci sono simpatizzanti di un’associazione buddista, per esempio, o attivisti anarchici che, non ritenendo coerente aderire a un’organizzazione, partecipano comunque alle riunioni del comitato offrendo il loro prezioso apporto di idee e competenze.
Ciascuno ha messo a disposizione le proprie risorse, sia per autofinanziare le iniziative, che per consultare i propri esperti. E occorrevano esperti in tutti i settori. Inoltre ciascuno poteva contare su reti nazionali e internazionali e le abbiamo messe in campo. Io come donna, moglie, madre, insegnante, cittadina del mio territorio e del mondo, ho sentito che si trattava di un impegno gravoso, importante, ricco di stimoli e a cui non si poteva rinunciare. Penso che la pace cominci da ciascuno di noi e ognuno ha il dovere di fare quello che può dal suo angolo di mondo. Senza pensare che è difficile, ma dicendosi semplicemente: “Ѐ giusto? Allora bisogna farlo!”
Come hai già accennato, la legislazione italiana, in materia di export di armi, è considerata una tra le più rigorose d’Europa: proibisce la vendita di armi a Paesi in conflitto. Eppure l’Italia non si sente in contraddizione e si limita a sottolineare che l’Arabia Saudita non è soggetta ad alcuna forma di embargo, sanzione o altra misura restrittiva europea e internazionale. Qual è il cortocircuito, il Governo sta violando le leggi nazionali e internazionali?
Bisogna dirlo a chiare lettere: il Governo sta violando la legge, la Legge 185/90, una legge straordinaria, nata anche dall’impegno dei cittadini, un modello per altri paesi, che ha nel suo principio ispiratore la consapevolezza della necessità della vigilanza in materia di export di armamenti. Ma viene aggirata in mille modi e soprattutto manca la volontà di approfondire. Il Parlamento Europeo ha emanato nel corso di quest’ultimo anno ben 4 risoluzioni che invitano i paesi membri ad effettuare l’embargo delle armi all’Arabia Saudita, per la sua condotta sconsiderata nello Yemen.
Il rapporto ONU è chiarissimo, nelle azioni di guerra dell’Arabia Saudita in Yemen ci sono gli estremi per ravvisare dei veri e propri crimini di guerra. Insomma ci troviamo nel paradosso di avere una fabbrica che esporta “legalmente”, perché autorizzata da un Governo che non tiene conto della legge. La Germania non lo fa. La Reinhmetall fa in Italia ciò che sul territorio tedesco, vuoi per maggiore sensibilità dei cittadini, vuoi per maggiore attenzione del Governo, non gli è possibile. Nell’accordo di Governo Merkel – Schulz compare chiaramente il punto dell’embargo alla vendita delle armi all’Arabia Saudita a causa dei gravi crimini di cui si è macchiata nello Yemen. La Grecia, la Norvegia, il Belgio hanno dichiarato l’embargo. L’Italia no. E le bombe sarde continuano a partire autorizzate.
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Il 21 giugno scorso, insieme a diverse associazioni, avevamo partecipato con un nostro rappresentante a una Conferenza stampa tenutasi presso la Camera dei deputati. Lì le varie realtà della società civile hanno fatto una proposta di mozione parlamentare, che è stata accolta in parte. La discussione in Parlamento, iniziata a luglio, si è conclusa a settembre. Alcuni partiti hanno votato per l’embargo all’Arabia Saudita. Ma la mozione maggioritaria è stata piuttosto blanda, non risolutiva: si riconosceva il problema umanitario dello Yemen e si esprimeva una generica volontà di adeguarsi alle richieste europee, ma di fatto, senza l’embargo non si andava al nocciolo della questione.
Lo abbiamo detto e anche scritto: se in quell’occasione i nostri rappresentanti in Parlamento avessero obbedito alla loro coscienza e non agli ordini di scuderia, si sarebbe aperta una falla e la RWM in Sardegna avrebbe perso il miglior cliente attuale. Forse a quel punto avrebbe potuto ipotizzare un percorso differente. Qualche parlamentare ha fatto obiezione di coscienza e non ha votato col proprio partito. Ma così non è stato per molti e quindi non è cambiato nulla. Ci sono state sul tema denunce alla procura di Cagliari, passate poi a Brescia e Roma. Noi stessi abbiamo presentato un esposto in tal senso. Ma per ora nessuna risposta significativa e nessuna volontà di approfondimento appaiono all’orizzonte.
A fine dicembre la notizia che delle bombe italiane venivano usate contro i civili yemeniti ha sconvolto tutti. La visibilità è nata grazie a un reportage sul NYT, poi però sembra che ce ne siamo dimenticati tutti nuovamente. È un’impressione o qualcosa invece si è smosso?
Il grande nodo dell’informazione è sempre stato un problema per i movimenti contro la guerra. I media possono dimenticare colpevolmente dei conflitti. Ma in questo senso il New York Times ci ha dato una mano: il servizio, accurato e preciso, ha destato scalpore. Ciò che pochi giornali avevano già abbondantemente detto, è diventato patrimonio di molte testate prima silenti: il giorno dopo tutti i più importanti giornali italiani e vari tg hanno riportato la notizia. Il Governo ancora una volta ha risposto in modo frettoloso e generico, ricalcando precedenti comunicati e ancora una volta noi abbiamo posto domande scomode all’attenzione dell’opinione pubblica. Nel frattempo cominciano ad interessarsi all’azione del Comitato i media tedeschi, spagnoli, greci. Riceviamo richieste di interviste sempre più frequentemente. Il 5 maggio si terrà ad Iglesias un convegno di NET ONE, una rete di giornalisti che invita colleghi delle varie testate a riflettere sul tema della guerra e dell’informazione. Ci aspettiamo molto da questo Convegno.
Il paragone con il passato è d’obbligo: un tempo l’opinione pubblica si riversava nelle piazze per chiedere disarmo e pace, cos’è successo?
Si tratta di un cambiamento principalmente culturale. La crisi economica, la violenza veicolata dai media e dai social, hanno assuefatto le coscienze e le hanno messe a tacere. In generale si respira un senso di impotenza, manca lo slancio al cambiamento. Ci siamo trovati nella situazione paradossale di ricevere una lettera dei lavoratori della RWM, nella quale loro sostengono di essere lavoratori del settore della difesa, di essere orgogliosi del loro lavoro. Lo fanno in blocco, firmando “i lavoratori”, senza i loro nomi e su carta intestata dell’azienda. Abbiamo dovuto sentire i sindacati dichiarare alla stampa che “a seguire fino in fondo i dettami etici non si arriva da nessuna parte” e infine, recentemente, la segreteria FILCTEM e la Cisl hanno firmato insieme a Confindustria, in una innaturale alleanza, dei comunicati nei quali si afferma che la produzione della RWM va tutelata in ogni modo in quanto perfettamente legale e necessaria per non deprimere ulteriormente i livelli occupativi del territorio.
Arnaldo Scarpa, portavoce con me del Comitato e iscritto alla Cgil ha scritto alla Camusso chiedendole se lo statuto CGIL, che all’articolo 2 definisce la “pace tra i popoli bene supremo dell’umanità”, e la “solidarietà attiva tra i lavoratori di tutti i Paesi fattore decisivo per la pace” sia diventato solo carta straccia o un paravento che maschera ben altre pratiche.
Ma chi continua a lavorare forse è perché non può fare altrimenti per vivere, nonostante sappia cosa sta facendo, come ci si pone rispetto a un dilemma morale così stretto?
Alcuni punti fermi dell’etica e della cultura sono gravemente messi in discussione e pare a molti normale proporre qualunque lavoro, senza dover seguire “dettami etici”. Noi siamo consapevoli che la nostra controparte non sono i lavoratori. Il tema è a monte, ci riguarda tutti. A loro e ai sindacati chiediamo collaborazione, obiezione di coscienza: le riconversioni avvenute in Italia, hanno avuto come motore proprio i lavoratori e i sindacati, come nel caso della Aermacchi e della Valsella.
Ma sarebbe profondamente ingiusto puntare il dito sull’ultimo anello della catena e lasciare che i potenti continuino indisturbati la corsa agli armamenti. Non dimentichiamo che ai lavoratori spettano le briciole di un sistema che offre utili non paragonabili ad altri settori. Non dimentichiamo che alcune multinazionali delocalizzano facilmente lasciando i lavoratori da un momento all’altro senza alternative. Costruire l’alternativa è la vera reazione morale che ci aspettiamo.
Ho letto che non solo la produzione di bombe non si ferma, ma che c’è stato un aumento di personale all’interno della fabbrica. Come è stato possibile?
Purtroppo quello delle armi è un mercato in forte espansione. L’investimento nel settore sarà pari a 25 miliardi per il 2018 con un aumento del 4% rispetto al 2017. La guerra, come sempre, è un affare. Quindi una qualunque impresa sul mercato degli armamenti fa utili notevoli. La RWM si sta espandendo in vari modi. Aveva fatto una richiesta di ampliamento, su un’isola amministrativa del Comune di Iglesias, San Marco, per realizzare un campo prove. Da lì è nato il nostro impegno verso l’amministrazione Comunale che è sfociato in un momento importante: l’approvazione all’unanimità di un ordine del giorno in cui Iglesias si dichiara “Città della pace”. Fino a ora c’era stato il silenzio-assenso nelle varie conferenze di servizi.
Ma adesso l’attenzione si è sollevata, abbiamo realizzato sit-in, effettuato con vari esperti numerosi accessi agli atti. In questo momento questa espansione è bloccata, per richieste di chiarimenti da parte della Regione che intende effettuare una verifica d’impatto ambientale. Ma la fabbrica si espande acquistando capannoni industriali dismessi e facendone depositi di vario tipo. Inoltre le autorizzazioni avute danno via libera all’export di commesse in modo massiccio. Certo poi sappiamo che l’idea è quella di produrre direttamente in Arabia Saudita e in Sud Africa, quindi ci possiamo aspettare o una delocalizzazione totale o una diversa produzione in loco, magari rivolta all’Ue e ai Paesi NATO. Ma l’aria mondiale cambia anche velocemente, potrebbero esserci delle sorprese se ci sarà una presa di coscienza globale sulla necessità di togliere spazio agli armamenti e di ripensare il sistema di difesa.
In campagna elettorale quasi nessuno parla di produzione bellica, come se non fosse un argomento di interesse pubblico.
Certamente i vari candidati vanno talvolta a sollecitare piccoli interessi personali, aspetti riassumibili con slogan semplicistici e la comunicazione politica in generale non è facile. La competenza costa e il cittadino fa fatica a districarsi tra i temi, preferendo spesso le semplificazioni. Ma il tema della pace, del disarmo, è cruciale.
A giorni inviteremo tutti i candidati alle prossime politiche della Sardegna, in un incontro pubblico a Cagliari, a dire la loro, a dichiarare prima quale sarà la loro azione in Parlamento su questo tema. Non daremo il voto al buio a chi non si esprime su questo aspetto.
Parliamo di riconversione, come ve la immaginate? Quali saranno i prossimi passi?
La riconversione va fatta in senso ampio: culturale, innanzitutto, delle coscienze e del pensiero. Va ripensata tutta l’economia del territorio a partire dalla rinuncia a fabbricare morte, in linea con i principi più alti della nostra Carta Costituzionale, anche in merito al lavoro. Bisogna credere più in se stessi e nelle proprie potenzialità di sviluppo. Occorrerà, inoltre, che la politica faccia le sue scelte esplicite: la riconversione si può finanziare. Così come con soldi pubblici è stata riconvertita una polveriera mineraria a fabbrica di bombe, ci sarebbe il dovere morale di finanziare con soldi pubblici una nuova produzione. Ma la fabbrica è in mano ai privati e solo la proprietà può decidere cosa produrre. Io credo che anche la RWM potrebbe porsi problemi di reputazione: la distruzione dello Yemen, un paese bellissimo, peserà sulle coscienze anche dei responsabili. Se non si vorrà produrre a Domusnovas qualcosa di più umano e costruttivo (noi abbiamo coinvolto docenti universitari che stanno studiando la cosa), dovrebbe essere la politica a riconvertire i posti di lavoro, con dei dispositivi di uscita e riassunzione in altri settori. Noi continuiamo a chiedere ai lavoratori, ai sindacati, ai politici, agli esperti, di sedersi attorno a un tavolo e aprirsi a nuove proposte. La riconversione la vedo così: dal basso, in maniera collettiva con fiducia e coraggio. E rimettendo l’etica al proprio posto nel vivere civile. E ciò a partire dal nostro piccolo territorio, una periferia del mondo, quelle periferie da cui può nascere creativamente qualcosa di buono per tutti.
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